Se avessimo camminato, nel luglio del 1849, per le strade del Gianicolo, per via di S. Pancrazio, per i vialetti di Villa Pamphilj, per via Aurelia Antica cosa avremmo visto? Oggi, in mezzo al solito traffico stressante, vediamo villette piccole o grandi, strade tranquille, bei panorami, gente impegnata nel jogging o nel far passeggiare i bambini. Si sorbisce un gelato, ci sono piccole manifestazioni, siepi e alberi più o meno curati. Tante statue, busti, lapidi ignorate, in fondo,  dalla maggioranza. Un clima rilassato tra IMU e spread. Poi vediamo ciò che resta di Monteverde Vecchio di un tempo, assalito dalla cementificazione, e scendendo per viale dei Quattro Venti, per esempio, il clima idilliaco del Gianicolo si perde nel caos fino ad arrivare alle propaggini di Monteverde Nuovo che di verde ha ormai solo il nome e qualche residuo di giardino.

Ma nel luglio del 1849, non so…  il 12 luglio ad esempio, cosa avremmo visto? Macerie. Macerie di Porte della cinta Gianicolense, di ville seicentesche, di resti di trincee, di casali rurali, di vigne devastate, di mura sbrecciate o sfondate. E tra queste macerie mani pietose di gente qualunque a cercare le macerie che ancora non erano state trovate di corpi non sepolti o rimasti nascosti in un fosso, dietro una siepe, sotto una parete crollata. Altre macerie erano dentro la città, a Trastevere in particolare, ma un po’ dappertutto: i colpi dei cannoni francesi di Oudinot erano stati impietosi e spesso precisi anche nel colpire volutamente l’ambiente civile lontano dai campi di battaglia: prima prefigurazione delle guerre moderne che infieriranno su cittadini inermi più che sui militari.

Stando attenti a dove mettere i piedi avremmo camminato tra i mille inquietanti e tragici resti di una battaglia cruentissima durata tutto il mese prima: le piccole macerie di un fucile rotto  abbandonato, di una giberna, dei resti di una divisa, di legni, chiodi, corde, copricapi e frammenti i più disparati. Strade irriconoscibili e la bella via che oggi si chiama via Garibaldi, tra Porta San Pancrazio e San Pietro in Montorio, allora una tranquilla strada tra i muri che recingevano Villa Spada, Villa Savorelli, Villa Giraud, avrebbe ancora qua e la per terra i segni di quando, appena pochi giorni prima, era stata chiamata la Strada del Sangue per l’andirivieni di barelle che portavano feriti e moribondi e il cui sangue colava a terra, per arrivare fino Santa Maria della Scala giù in Trastevere e ancora fino alla Trinità dei Pellegrini.

Domenica 10 giugno, per il quarto anno, in una Fiaccolata al Gianicolo in onore dei Caduti per la difesa della Repubblica Romana del 1849 abbiamo invitato ( noi del Gruppo Laico di Ricerca e i Garibaldini per l’Italia) a vedere, durante il percorso,  non ciò che si vede oggi ma quelle macerie che non si vedono più. Quando quelle macerie con la loro memoria di dolore e sacrificio erano concrete e visibili. E mentre provavamo a guardarle senza vederle  con rispetto e pena, cercavamo soprattutto di guardare le macerie che le hanno sostituite oggi: quelle del nostro Paese, dei sogni, dei diritti, dei valori, della gentilezza, delle persone, della democrazia, della laicità, della libertà vera, della responsabilità, della res-publica. Anche queste macerie non si vedono se non si è attenti e vivi, devastati dentro e resi inerti.

Da un lato le macerie di chi ha lottato, in quel 1849, per difendere il sogno di una Repubblica reale che aveva cominciato ad elaborare la sovranità del popolo, l’ uguaglianza, la  libertà e la  fraternità dei cittadini. Che stabiliva il rifiuto netto dei  privilegi di nascita o casta. Che aveva dato inizio alla    laicità dello Stato, alla  libertà di religione, alla  libertà di stampa, all’ abolizione della pena di morte e della  censura, al suffragio universale maschile e preparava anche quello femminile. Che aveva liberato gli ebrei dal ghetto e aperto ad una visione religiosa libera dall’oscurantismo papale. Una Repubblica che lavorava all’elaborazione del concetto  di  Stato  unitario,  fondato sulla democrazia ‘pura’ come modello di governo autenticamente  partecipato.

Dall’altro lato le macerie di un Paese e di troppi cittadini resi e diventati sudditi, che si sono arresi senza difendersi, lasciando soli coloro che  invece ci avvertivano del degrado che stava distruggendo le speranze nate nel Risorgimento e nella Resistenza, il secondo Risorgimento. Le nostre tristi macerie.

Mentre pronunciavamo, durante il percorso, 51 nomi dei 942 caduti riconosciuti ufficialmente ( ma tanti sono i dispersi, gli ignoti), tenevamo una fiaccola accesa in mano come per raccogliere la forza vitale di chi è morto vivendo per qualcosa di degno, per illuminare le macerie nostre e almeno rendercene conto.

Quando siamo giunti al Sacrario dei Caduti per la difesa di Roma, lì dove sono sepolti, insieme a Mameli, circa duecento di quei caduti ( anche in battaglie di anni seguenti) abbiamo suonato, ascoltato, fatto silenzio. Poi abbiamo spento le luci. Poi siamo tornati a casa. Poi…  Poi cosa rimane di una via Crucis Laica come la Fiaccolata ha voluto essere? Chi ha partecipato come può onorare veramente la loro memoria? Partecipare ad un Rito laico, ad una manifestazione o all’inaugurazione di un monumento non basta: è importante ma non basta e può diventare inutile. Quando le fiaccole si sono spente è rimasta, però, solo la luce di ciò che quegli uomini e quelle donne del ’49 credevano, delle ragioni per cui non hanno conservato la loro vita ma l’hanno messa in gioco e molti l’hanno donata. Quella è la luce da raccogliere, il vero modo di onorarli: conoscere, approfondire e mettere in rapporto con la nostra vita i progetti, le visioni umane, civili e politiche che quegli uomini e quelle donne elaborarono nei mesi precedenti quel mese di Giugno. Quella luce è l’anima della Repubblica Romana che può e deve diventare formazione permanente per adulti, giovani e ragazzi; formazione permanente a cui la nostra Associazione dedica da anni il suo impegno nella quasi totale indifferenza. Formazione che ci aiuti a non essere complici del degrado morale e civile e dei compromessi che ci circondano, anche a costo di forti sacrifici. Che ci aiuti a non aumentare le macerie da parte nostra…

Quella luce è espressa magnificamente nel Proclama con cui il Triumvirato, composto da Mazzini, Armellini e Saffi e appena eletto, presentò a tutti i cittadini, il 5 aprile del 1849, il proprio programma di governo. Quel proclama è la sostanza magnifica della Repubblica Romana che troverà la sua ricapitolazione nella Costituzione proclamata al mondo il 3 luglio del 1849, con i Francesi già padroni di Roma.  Solo conoscendo con passione per quale straordinario sogno, che si vedeva cominciare a concretizzarsi, si  combatteva e si  moriva lì sul Gianicolo e in altre parti della Repubblica è possibile capire una pagina drammatica come quella dei ricordi di Raffaele Tosi che, in quei giorni, era un semplice tamburino di 17 anni e combatteva a porta San Pancrazio.

Ci lasciamo allora questi testi. Li lasciamo alla nostra riflessione personale perché questo è il vero modo per onorare quei caduti e i caduti di ogni tempo per i valori della libertà. Riflessione che deve durare tutto il tempo della nostra esistenza per capire come ci siamo ridotti in Italia. Riflessione perdurante senza la quale anche una Fiaccolata è solo un inutile rito. Riflessione e formazione personale che ci permettano d’illuminare le macerie intorno a noi e in noi; quelle macerie che ci sono realmente oggi, e deciderci…

 

“Il 29 marzo ebbe luogo l’elezione del Triumvirato, del quale io feci parte e che pubblicò il seguente programma.(Giuseppe  Mazzini, da  “Scritti politici“)

CITTADINI!

Da cinque giorni noi siamo rivestiti d’un sacro mandato dall’Assemblea. Abbiamo maturamente interrogato le condizioni del paese, quelle della patria comune, l’Italia, i desiderî dei buoni, e la nostra coscienza; ed è tempo che il popolo oda una voce da noi; è tempo che per noi si dica con quali norme generali noi intendiamo soddisfare al mandato. Provvedere alla salute della repubblica; tutelarla dai pericoli interni ed esterni; rappresentarla degnamente nella guerra dell’indipendenza: questo è il mandato affidatoci.

E questo mandato significa per noi non solamente venerazione a una forma, a un nome, ma al principio rappresentato da quel nome, da quella forma governativa; e quel principio è per noi un principio d’amore, di maggiore incivilimento, di progresso fraterno con tutti e per tutti, di miglioramento morale, intellettuale, economico per la universalità dei cittadini.

La bandiera repubblicana inalzata in Roma dai rappresentanti del popolo non esprime il trionfo d’una frazione di cittadini sopra un’altra; esprime un trionfo comune, una vittoria riportata da molti, consentita dalla immensa maggiorità, del principio del bene su quello del male, del diritto comune sull’arbitrio dei pochi, della santa eguaglianza che Dio decretava a tutte le anime, sul privilegio e sul dispotismo. Noi non possiamo essere repubblicani senza essere e dimostrarci migliori dei poteri rovesciati per sempre. Libertà e Virtù, Repubblica e Fratellanza devono essere inseparabilmente congiunte.

E noi dobbiamo darne l’esempio all’Europa. La repubblica in Roma è un programma italiano: una speranza, un avvenire pei ventisei milioni d’uomini fratelli nostri. Si tratta di provare all’Italia e all’Europa che il nostro grido Dio e il Popolo non è una menzogna – che l’opera nostra è in sommo grado religiosa, educatrice, morale – che false sono le accuse d’intolleranza, d’anarchia, di sommovimento avventate alla santa bandiera, e che noi procediamo, mercè il principio repubblicano, concordi come una famiglia di buoni, sotto il guardo di Dio e dietro alle inspirazioni dei migliori per Genio e Virtù, alla conquista dell’ordine vero, Legge e Forza associate. Così intendiamo il nostro mandato. Così speriamo che tutti i cittadini lo intenderanno a poco a poco con noi. Noi non siamo governo di un partito; ma governo della nazione. La nazione è repubblicana.

La nazione abbraccia quanti in oggi professano sinceri la fede repubblicana, compiange ed educa quanti non ne intendono la santità; schiaccia nella sua onnipotenza di sovranità quanti tentassero violarla con ribellione aperta o mene segrete provocatrici di risse civili. Nè intolleranza, nè debolezza. La repubblica è conciliatrice ed energica.

Il governo della repubblica è forte; quindi non teme; ha missione di conservare intatti i diritti e libero il compimento dei doveri d’ognuno: quindi non s’inebria di una vana e colpevole securità. La nazione ha vinto; vinto per sempre. Il suo governo deve avere la calma generosa e serena e non deve conoscere gli abusi della vittoria. Inesorabile quanto al principio, tollerante e imparziale cogli individui: nè codardo nè provocatore: tale dev’essere un governo per esser degno dell’instituzione repubblicana.

Economia negli impieghi; moralità nella scelta degli impiegati; capacità, accertata dovunque si può per concorso, messa a capo di ogni ufficio, nella sfera amministrativa Ordine e severità di verificazione e censura nella sfera finanziaria, limitazione di spese, guerra a ogni prodigalità, attribuzione d’ogni denaro del paese all’utile del paese, esigenza inviolabile d’ogni sacrificio ovunque le necessità del paese la impongano.

Non guerra di classi, non ostilità alle ricchezze acquistate, non violazioni improvvide o ingiuste di proprietà; ma tendenza continua al miglioramento materiale dei meno favoriti dalla fortuna, e volontà ferma di ristabilire il credito dello Stato, e freno a qualunque egoismo colpevole di monopolio, d’artificio, o di resistenza passiva, dissolvente o procacciante alterarlo.

Poche e caute leggi;  ma vigilanza decisa sull’esecuzione. Forza e disciplina d’esercito regolare sacro alla difesa del paese, sacro alla guerra della nazione per l’indipendenza e per la libertà dell’Italia. Sono queste le basi generali del nostro programma: programma che riceverà da noi sviluppo più o meno rapido a seconda dei casi, ma che, intenzionalmente, noi non violeremo giammai  Recenti nel potere, circondati d’abusi spettanti al governo caduto, arrestati a ogni passo dagli effetti dell’inerzia e delle incertezze altrui, noi abbiamo bisogno di tolleranza da tutti; bisogno sovra ogni cosa che nessuno ci giudichi fuorchè sulle opere nostre.

Amici a quanti vogliono il bene della patria comune, puri di core se non potenti di mente, collocati nelle circostanze più gravi che sieno mai toccate ad un popolo e al suo governo, noi abbiamo bisogno del concorso attivo di tutti, del lavoro concorde, pacifico, fraterno di tutti. E speriamo d’averlo. Il paese non deve nè può retrocedere: non deve nè vuole cadere nell’anarchia. Ci secondino i buoni; Dio, che ha decretato Roma risorta e l’Italia nazione, ci seconderà.

IL TRIUMVIRATO,  5 aprile 1849


Porta San Pancrazio fu l’epicentro della difesa di Roma nel 1849. Così narra Raffaele Tosi (1833-1913), tamburino di 17 anni  presente qui in quei giorni (eroico difensore di Roma dimenticato come tanti, tanti), nel suo libro di memorie «Da Venezia a Mentana » del 1906:

Dagli spalti e dalle feritoie combattevamo al canto della Marsigliese. Momento solenne! Di lassù, dalle alture storiche del Gianicolo, quell’aria di guerra suonava alto rimprovero alla Francia repubblicana, venuta ad abbattere la libertà nascente di Roma.… Le cose andavano di giorno in giorno peggiorando. Protetto da parallele e da condotti coperti, il nemico si accostava man mano alle mura rendendo ristretta sempre più la cinta d’assedio. Alla penuria dei mezzi soccorreva la virtù de   i difensori, fra i quali, peraltro, grandi vuoti aveva fatto la morte. A centinaia si contavano i caduti e fra essi è pur degna di gloria Colomba Antonietti… La rampa di San Pancrazio era così imbevuta di sangue che Garibaldi stesso sdrucciolò passandovi con il cavallo…

Nelle prime ore della notte del 13 giugno vedemmo, in lontananza, scintillare sottili linee di fuoco,  e poi crescere, crescere, e divampare finalmente con furiosi contorcimenti.  Che significavano mai quelle fiamme? Sospettammo che i nemici avessero appiccato l’incendio ai  casolari poveri, fuori le mura, che servivano di’ riposo ai nostri avamposti; ma poi si seppe che su  un gran rogo ardevano i cadaveri da vari giorni insepolti dei caduti nostri. Gli uomini addetti al sotterramento più non bastavano al bisogno, e furono visti talora, lasciare la  lugubre pala per correre a combattere e ritornare indi al pio lavoro: alternativa tragica fra i  silenzi delle tombe e i clamori della battaglia. Noi guardavamo intanto, non so, se attoniti o curiosi,  quell’incendio umano; e io lo ricordo ancora dopo in quell’anno, attraverso la nebbia della  memoria; e mi è caro, oggi, pensare non fosse per avventura se non la sacra fiamma votiva accesa  a sacrificio solenne sull’altare della Patria.

 

 

 

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