Risale a più di dieci anni fa un articolo di Paul Krugman – uno dei più profetici – sul collasso della compagnia energetica Enron. La Grande Crisi che traversiamo fu preceduta da quel primo cupo segnale, e in esso l’economista vide, sul New York Times del 29 gennaio 2002, la forma delle cose future. Quella storia di finta gloria mischiata a frode era ben più decisiva dell’assalto al Trade Center, che l’11 settembre 2001 aveva seminato morte e offeso la potenza Usa. «Un grande evento – era scritto – cambia ogni cosa solo se cambia il modo in cui vedi te stesso. L’attacco terrorista non poteva farlo, perché di esso fummo vittime più che perpetratori. L’11 settembre ci insegnò molto sul wahabismo, ma non molto sull’americanismo». La vicenda Enron mise fine all’età di innocenza del capitalismo, svelando le sregolatezze e il lassismo in cui era precipitato. I sacerdoti di quell’età erano prigionieri di dogmi, e nessuna domanda dura scalfiva la convinzione che questo fosse il migliore dei mondi possibili. Fu come il terremoto di Lisbona, che nel 1755 costrinse la filosofia europea ad abbandonare (grazie a Voltaire, a Kant) l’ottimistica fede nella Provvidenza.
Nell’immediato non uccise come l’11 settembre, ma siccome non esiste sacerdote senza sacrifici cruenti anche questo presto cambiò: fra il 2007 e oggi la crisi ha cominciato ad avere i suoi morti, sotto forma di suicidi. Sono iniziati in Francia, nel 2007-2008. Ora quest’infelicità estrema, impotente, lambisce Grecia e Italia, colpite dalla recessione e da misure che rendono disperante il rapporto fra l’uomo e il lavoro, l’uomo e la propria vecchiaia, l’uomo e la libertà. Senza lavoro, senza la possibilità di adempiere gli obblighi che più contano (verso i propri figli, la propria dignità) la stessa libertà politica s’appanna: diventi un emigrante clandestino in patria, un trapiantato. Suicidi di questo tipo non sono patologie intime, dislocazioni dell’anima che nella morte cerca un suo metodo. In Francia, in Grecia, in Italia, sono tutti legati alla crisi. Sono commessi da pensionati, lavoratori, imprenditori presi nella gabbia di debiti, mutui non rimborsabili, aziende fallite. È significativo che quasi tutti si immolino in piazza o nei posti di lavoro, lasciando lettere-testamenti che dicono l’indicibile scelta. Dimitris Christoulas, il pensionato che il 4 aprile s’è tolto la vita in Syntagma Square – la piazza delle proteste – scrive che il governo, ribattezzato «governo collaborazionista di Tsolakoglou» in ricordo del Premier che nel ’41-42 aprì le porte ai nazisti, «ha annientato la mia capacità di sopravvivenza, basata su una pensione dignitosa cui avevo contribuito per 35 anni».
Christoulas non vuol «mettersi a pescare nella spazzatura» di che sostentarsi, e avverte: i giovani derubati di futuro impiccheranno i responsabili come fecero gli italiani a Piazzale Loreto con Mussolini. «Vista la mia età avanzata, non posso reagire in modo attivo. Ma se un mio concittadino afferrasse un Kalashnikov, sarei pronto a stare al suo fianco». Le statistiche sui primi cinque mesi del 2011 certificano un incremento di suicidi del 40 per cento, rispetto allo stesso periodo del 2010. Disastri simili accadono in Italia. La Cgia, Associazione artigiani e piccole imprese di Mestre, annuncia che nel 2008-2010 i suicidi sono cresciuti del 24,6%: sono usciti dal mondo imprenditori, lavoratori dipendenti, pensionati. Nel 2008 i suicidi economici sono 150, nel 2010 sono 187. C’è un «effetto imitazione», spiega la Cgia, ma il termine è lenitivo. Ci si consolò così nel 2008, quando si uccisero 24 dipendenti di Telecom-Francia (una prima avvisaglia era venuta l’anno prima da Renault: tre suicidi in 4 mesi). Il motivo sociale venne sottovalutato, come nel 2002 si sottovalutò il crollo di Enron, rovinoso per i fondi pensione di migliaia di lavoratori. Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia, parla di «perdita di sicurezza, solitudine, disperazione, ribellione contro un mondo che si sta rivelando cinico, inospitale». Governi, giornalisti, economisti dovrebbero smettere le sacerdotali litanie sulla «resistenza al cambiamento». Fa parte del loro mestiere provare a capire le segrete molle dell’uomo, non solo dei bilanci. Il suicida è un indignato che naufraga perché non riconosciuto, non visto.
Anche su questo Krugman fu veggente, nel 2002: «Per chi non è direttamente implicato – gran parte dei politici non lo è – non conta quel che ha fatto, ma quel che fa». Mancò infatti ogni esame critico del passato, del consenso a tante sregolatezze. Un decennio è passato, e l’ottusa reazione del ministro del Tesoro di Bush, Paul O’Neill, fa tuttora scuola: «Le imprese vengono e vanno. È il genio del capitalismo». I suicidi in Grecia o Italia sono una ribellione contro il fatalismo di questa definizione – genio – che vede nel capitalismo una forza di natura, contro cui nulla si può se non
cader fuori dalla giostra impazzita. Un falso profeta, Samuel Huntington, predisse nel ’92 prossimi scontri tra le civiltà. Lo scontro è dentro le civiltà: la nostra. I suicidi ne sono il sintomo. Chi non ci crede vada all’Aquila. Salvatore Settis ha visto una Pompei del XXI secolo (Repubblica 7-4). Le rovine del terremoto sono restate tali e quali, come in un racconto di fantascienza.
Chi ha detto che il capitalismo è movimento? Il suicidio studiato nell’800 da Emile Durkheim è l’autoaffondamento del cittadino cui sono strappati non solo i diritti ma gli obblighi stessi della cittadinanza: la libera sottomissione alla necessità del lavoro, il sentirsi parte di una società, di un ordine professionale, di un sindacato che includa e integri. A differenza del suicidio intimista, o dell’immolazione altruista, Durkheim lo chiama suicidio anomico. La sua radice è nell’anomia: nello svanire di norme che ogni crisi comporta. Nell’impunità di cui godono gli iniziati che di norme fanno a meno. In quest’anomia viviamo, senza più gli avvocati dell’individuo che sono stati i sindacati, gli ordini professionali, le chiese, i partiti. La corruzione di questi ultimi è una manna, per chi vuol fare un deserto e chiamarlo pace. Grecia e Italia ne sono malate, e non a caso è qui che il cittadino tramutato in cliente non spera più di essere udito. «Mai gli uomini consentirebbero a limitare i propri desideri se si credessero autorizzati a superare il limite loro assegnato. Ma per le ragioni suddette non possono dettarsi da soli questa legge di giustizia. Dovranno perciò riceverla da una autorità che rispettano e alla quale si inchinano spontaneamente. Soltanto la società, sia direttamente e nel suo insieme, sia mediante uno dei suoi organi è capace di svolgere questa funzione moderatrice, soltanto essa è quel potere morale superiore di cui l’individuo accetta l’autorità. Soltanto essa ha l’autorità necessaria a conferire il diritto e a segnare alle passioni il limite oltre il quale non devono andare». (Durkheim, Il suicidio, 1897).
Della società fanno parte partiti, sindacati, imprenditori, governanti: tutti si sono rivelati incapaci di osservare e dunque imporre le norme, tutti sono portatori di anomia. Per questo leggi e tutele sono così importanti. Diceva nell’800 il cattolico Henri Lacordaire: «Tra il forte e il debole, tra il ricco e il povero, tra il padrone e il servitore: quel che opprime è la libertà, quel che affranca è la legge». Di legge, di nòmos, hanno bisogno i cittadini greci e italiani, apolidi in patria. Se è vero che viviamo trasformazioni planetarie, urge sapere che esse scatenano sempre un aumento di suicidi: secondo Durkheim anche i boom economici demoralizzano. Dobbiamo infine sapere che Camus aveva ragione: la rivolta è la risposta, l’unica forse, al suicidio (il paese «si salva al piano terra», dice Erri De Luca). Quando è positiva, la rivolta tende a reintrodurre il senso della legge lì dove s’è insediata l’anomia.
Barbara Spinelli la Repubblica 11 aprile 2012
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