L’ uomo è animale normativo. Questo vuol dire che mentre gli altri primati vivono, per intenderci rapidamente, in base agli istinti, tutta la nostra vita è invece soggetta a norme. Bisognerebbe imparare a sentire, nella parola «normalità», proprio il senso pervasivo della normatività radicata nel nostro comportamento quotidiano. Tutta la nostra vita cosciente, che si tratti di azioni, decisioni, emozioni, pensieri, percezioni, è soggetta alla questione se sia come dovrebbe. C’è una coscienza normativa – tipicamente, un senso di (in)adeguatezza – che attraversa ogni nostro fare, dire, pensare, percepire, sentire: ci rendiamo conto del suo essere più o meno adeguato, corretto, opportuno, riuscito, «esatto» (da «esigere»). Del resto, l’anima di ogni cultura – a cominciare dalla suo stesso scheletro, la lingua di quella cultura – è un’anima normativa, è in qualche modo coscienza di un dovuto. Nell’esempio della lingua lo si vede con la massima chiarezza. Nessuno parla come gli passa per la testa, perché non parlerebbe affatto. Parlare è piegarsi alle norme di senso della lingua in cui si parla…
Da dove viene il potere obbligante delle norme? Da Dio, dalla Natura, dalla Società, dalla Ragione? Possiamo ricostruire la storia della filosofia in base alle risposte che si danno a questa questione. Ma se il mondo antico e quello moderno ancora disputano in noi con le loro risposte, è dai tempi di Socrate che noi conosciamo un modello di «normalità» umana che è centrato sul potere dell’interrogativo. Socrate incentrò su questo potere la sua paideia , l’educazione dell’uomo alla ricerca dei fondamenti di giustificazione delle norme, di qualunque tipo, inclusi i nostri mores. Lungo la via di Socrate è cresciuto, nell’anima d’Europa, quasi tutto ciò per cui vale la pena di vivere: la libera ricerca nelle scienze, nelle arti, nell’etica, nel diritto, nella politica, nella religione. La «normalità» socratica è il rinnovamento morale quotidiano, che idealmente presuppone la libertà e la ricerca di verità, per dare alla norma quotidiana verifica, o allora ragionevole e giusta modifica. Husserl nello stesso spirito pensava che «etica» e «rinnovamento» quotidiano siano quasi sinonimi. Il gioco socratico della verifica delle regole è in un certo senso l’eterna giovinezza: in un senso opposto a quello della grottesca, scimmiesca simulazione di giovinezza che abbiamo sotto gli occhi nelle viziose gerontocrazie di oggi.
Oggi però sappiamo molto di più di un tempo sulle basi naturali della cultura. Sulla differenza fra noi e le specie più evolute di primati la scienza ha detto molto. La differenza è minima in termini genetici, eppure enorme all’apparenza. Come mai? Michael Tomasello, ugualmente esperto nella psicologia sperimentale dei primati e degli infanti umani, è diventato famoso per aver individuato questa differenza nel fatto che questa pur minima differenza ha fatto di noi degli animali cooperativi. Tomasello ha giocato a lungo coi bambini più piccoli, e ha studiato il loro giocare. Qui, nel loro gioco, ha scoperto quello che ci distingue davvero dai primati. Noi abbiamo delle capacità naturali in cui questa attitudine cooperativa si fonda. Noi sappiamo veramente imitare, cioè non semplicemente copiare le azioni, ma capire le loro intenzioni e riprodurle: direi, afferrare la regola che anima un gesto. Mentre le scimmie, quand’anche scimmiottino, sanno solo «emulare»: cioè imitare l’uso di un mezzo per scopi che già hanno indipendentemente. Non apprendono per imitazione fini e intenzioni nuove. Non imparano le regole di giochi per loro nuovi, come i bambini anche piccolissimi. Non imparano a scambiarsi il ruolo nei giochi, quindi a relativizzare il proprio punto di vista sulla realtà, capire ce ne sono anche altri. Non sanno condividere l’attenzione, e quindi il riferimento a un comune contesto. Non sono fatti per condividere un linguaggio, e neppure una cultura materiale. Non c’è propriamente crescita tramite accumulo e innovazione nel mondo animale.
Un equivoco grava su questa scoperta: una sorta di tesi neo-roussoviana, per cui noi saremmo allora «naturalmente» buoni, simpatici. È l’equivoco della naturalizzazione dell’etica: questa starebbe già nella nostra natura cooperativa – e non soltanto competitiva. Un equivoco, perché non è affatto il carattere cooperativo come tale a rendere un’interazione umana, o addirittura una società umana, giusta. È vero che le società umane sono organizzate in modo cooperativo. Ma la cooperazione funziona tanto nella giustizia quanto nell’ingiustizia, tanto è vero che fin dall’inizio delle civiltà si dibatte sull’alternativa fondamentale: la legge si fonda sulla forza o sulla giustizia? Socrate e Trasimaco aprono una disputa che dura fino ai nostri giorni – e se la filosofia tende a dar ragione a Socrate la storia tende a darla a Trasimaco. Il fenomeno più palese della cooperazione senza giustizia è la consorteria, origine di ogni forma di criminalità organizzata, che è la tendenza a cooperare conformemente al vantaggio dei cooperanti qualunque sia lo svantaggio di terzi estranei all’accordo, e quindi della comunità più vasta cui il gruppo dei cooperanti appartiene. Il modello di «normalità» che sembra oggi dominante in Italia è quella dell’uomo di consorteria.
È la soggettività così caratteristica dei nostri giorni: la «normalità» priva di ogni senso di (in)adeguatezza, priva perfino dell’ombra di un interrogativo, mera funzione di quella collettiva della consorteria d’appartenenza. È la mentalità dell’esecutore – che sia poi quella del complice, del servitore o di quel mezzo fra i due che è il moderno «mediatore»: il faccendiere, il referente politico per l’attività lobbistica, il funzionario di partito, il giornalista deferente. La sua funzione è quella del topo roditore di normatività. Si parla oggi più correntemente di erosione di legalità, perché di questa abbiamo dati contabili, l’enorme fatturato annuale che comporta. Ma non è che la punta dell’iceberg, dove l’iceberg è l’erosione di legalità interiore. Ne esiste una gamma quasi infinita di varianti, a seconda del tipo di consorteria: dalle cordate dei concorsi universitari alle cosche mafiose. Ciò che l’erosione di legalità esterna e interiore produce, è la sostituzione della regola esplicita, che si rivolge alla coscienza personale e alla sua facoltà di dubbio e interrogazione, con il potere normativo della pressione sociale, la cui caratteristica è la delegittimazione del dissenso. Ne sappiamo qualcosa in questi giorni, quando torna in auge una frase che potevamo sperare sepolta nel cimitero degli orrori politici: «Se dici così fai il gioco dell’avversario».
Roberta De Monticelli La Stampa 6 settembre 2012