Le nostre radici, antidoto alla crisi
C’è la lettera, l’ultima, ai compagni, di un ragazzo partigiano di Parma, Giordano Cavestro, studente di 18 anni, fucilato dai fascisti repubblichini il 4 maggio 1944 a Bardi, che riletta oggi riempie di dolore e di commozione per le sue speranze tradite:
«Se vivrete tocca a voi rifare questa povera Italia che è così bella, che ha un sole così caldo, le mamme così buone e le ragazze così care. La mia giovinezza è spezzata, ma sono sicuro che servirà da esempio».
È servita da esempio quella giovane morte? Questa nostra di oggi non sembra davvero l’Italia che sognarono i partigiani discesi dalle montagne il 25 Aprile 1945. La crisi economico-finanziaria, con i 3 milioni di disoccupati, il 38,7 dei giovani senza lavoro, i quasi 3 milioni di precari, gli esodati, le fabbriche piccole e medie che ogni giorno chiudono sono i dati crudeli della condizione del Paese.
Ma l’incuria dura da decenni di cattivi governi, il paesaggio è devastato, in nome della speculazione. Della bellezza non si tiene alcun conto; la situazione idrogeologica è perennemente precaria, si parla delle alluvioni e dei terremoti soltanto al momento degli eventi, poi cala il silenzio, come all’Aquila, con il suo centro storico dopo quattro anni desolatamente abbandonato. Per la cultura — musei, biblioteche, archivi, teatri — che dovrebbe essere un forno sempre acceso, l’Italia è all’ultimo posto in Europa per i suoi investimenti e al penultimo per l’istruzione.
È questo il Paese sognato dagli uomini e dalle donne della Resistenza dopo i disastri del fascismo e della guerra? Le commemorazioni possono anche essere di maniera, stucchevoli, ma nei momenti gravi della vita nazionale come questo che stiamo vivendo, un 8 settembre della democrazia, è necessario e doveroso, invece, ripensare alle proprie radici per poter ricominciare, ripetere con pazienza che la Repubblica è figlia della Resistenza al fascismo, anche se si è fatto di tutto, in questi anni, per negare in modo beffardo l’evidenza tentando continuamente di dimenticare e di cancellare la Costituzione che, come scrisse padre David Maria Turoldo, è il Vangelo della Repubblica.
Che festa grande fu quel 25 Aprile entrare nelle città liberate, tra la folla che applaudiva, i ragazzi che sventolavano bandiere, rosse, azzurre, tricolori, con le campane che suonavano a distesa. Era finita. I partigiani arrivarono spesso prima degli americani, degli inglesi, dei neozelandesi, dei polacchi. A Genova i tedeschi chiesero la resa al Corpo volontari della libertà e le brigate partigiane sfilarono lungo via XX settembre scortando migliaia di prigionieri dell’esercito nazista catturati o arresi. A Milano fu la divisione garibaldina dell’Oltrepò comandata da Italo Pietra, il futuro direttore del Giorno, a liberare la città entrando da Porta Ticinese. Che emozione per quei ragazzi diventati adulti tra le asperità della guerra di montagna contro un nemico che da sempre ha le armi nel sangue. Carlo Smuraglia, presidente dell’Anpi, giurista insigne, partigiano, poi nell’Esercito italiano di liberazione, ha raccontato alla tv come fu naturale allora per lui, studente di vent’anni alla Normale di Pisa, scegliere la parte della libertà e della giustizia. Più semplice che per un giovane di oggi.
E dopo? Non andò di certo come doveva, con la Guerra fredda che divise di nuovo il mondo, gli ostruzionismi, i maccartismi, la cancellazione delle garanzie, le discriminazioni, il revisionismo impudico ancora oggi in azione. La vittoria sul fascismo non è stata mai digerita del tutto da strati non piccoli della società.
Nell’estate del 2011, il governo Berlusconi che negava ancora l’esistenza della crisi, boccheggiante, con l’acqua alla gola, tentò di abolire la festa del 25 Aprile e anche il Primo maggio e il Due giugno. Di recente un leader del Movimento 5 Stelle, Roberta Lombardi, non ha scritto che il fascismo ebbe un altissimo senso dello Stato? Il fascismo buono. Tutti uguali, carnefici e vittime. E Luciano Violante, eletto nel 1996 presidente della Camera, non riabilitò benevolo, nel discorso ufficiale a Montecitorio, i «ragazzi di Salò»? (Tutti i morti sono uguali, ma sono ben diverse le ragioni per cui sono caduti: i partigiani, per la liberazione dell’Italia, i fascisti al servizio dei tedeschi invasori, spesso anche più feroci di loro nei rastrellamenti).
La crisi non è soltanto economico-finanziaria, ma è una crisi culturale, politica, antropologica di tutta una classe dirigente. Occorre intervenire subito con coraggio, ma ci vorranno anni, forse generazioni, per ricomporre una società che riabbia dignità e rispetto per se stessa. Tra passato e presente.
Se si pensa chi furono gli uomini della Costituzione, appartenenti a tutte le forze politiche — Luigi Einaudi, Lelio Basso, Piero Calamandrei, Alcide De Gasperi, Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani, Giorgio La Pira, Nilde Iotti, Emilio Lussu, Concetto Marchesi, Aldo Moro, Costantino Mortati, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti — può essere umiliante un paragone con l’oggi.
Il 4 marzo 1947, Piero Calamandrei fece all’Assemblea costituente un discorso che ha mantenuta intatta tutta la sua contemporaneità. Concluse così:
«Che cosa diranno i posteri di questa nostra Costituzione? Seduti su questi scranni è stato tutto un popolo di morti, di quei morti che noi conosciamo a uno a uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani».
Corrado Stajano Corriere della Sera 24 aprile 2013
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