Caro amico ti scrivo… Ti scrivo per non piangere e per non leggere i giornali, per non andare a passeggiare in riva al fiume, per non rispondere a mio figlio che mi chiede notizie dell’Italia. Ti scrivo per non salire sul tetto e mettermi a urlare in mezzo alla notte» senza neppure la speranza che fa urlare i gatti. Del resto» che cosa resta se non urlare» quando la lingua è ridotta a una melma di non sensi a furia di farle dire tutto e il contrario di tutto.

Di usare le parole per riferirsi al loro contrario. Di dire responsabilità e intendere omertà, dire giustizia e intendere impunità, dire rinnovamento e intendere Angelino Alfano, dire legalità e intendere messa al sicuro dei fuorilegge, dire democrazia e intendere consorteria. Non so se a un italiano è capitato di sentirsi così in altri tempi. Ma questa finzione di democrazia ridicolizza anche lo sdegno. Distrugge tutto, compresa la rabbia che affonda prima nella nausea e poi nell’infinita noia, condita dalla melassa dell’universale soddisfazione.

Cannoni e campane, bandiere e campanellino, giuramenti e sorrisi. Una fioritura di ceffi e mammole su una discarica d’infamia, con terzismo e cinismo a far da cagnolini d’onore. Caro amico ti scrivo per dirti quanto spero che tu ti rimetta dal tuo male e scongiuri il mio, quello che incombe, peggiore di tutti – la rassegnazione. Questo paese non è riformabile. Disperare è peccato. Ma quando il trionfo del cinismo e della mediocrità è tale, manca il respiro per ciò che dovrebbe essere più importante del modo in cui si governa un paese – per ciò cui ogni governo dovrebbe servire. La possibilità per tutti di una vita umana: di intravedere almeno ogni tanto lo splendore e lo sgomento d’esser qua, l’altezza e la profondità di ciò che esiste.

Ma dove sono le facce di costoro, le cose più alte non ci sono più. Anche le amicizie si allentano, la voglia di fuggire sempre più lontano è grande. Il senso di un assassinio consumato su ciò che restava dell’eredità comune, diciamo della patria, si fa macchia di lutto in cuore e avvelena tutto. Ogni frase che dico in un’altra lingua è avvelenata dall’invidia che provo per chi ha una patria, o almeno una res publica da onorare. Che significa anche persone di cui avere stima. Perché alla fine anche questo succede: si perde il gusto della stima come sentimento in generaleLa si perde anzitutto per se stessi, perché chi non è colpevole se questo paese è ridotto così. Cosa ho fatto dei miei anni per portargli un po’ di bene. Per dare un po’ di speranza all’età che più ne ha bisogno. Niente. Meno di niente.

Eppure la mia generazione è quella che si è mangiata tutto quello che c’era, a scapito di chi è venuto dopo. Con le sue orrende seconde case ha ucciso la bellezza del paesaggio, con i suoi pensieri sgangherati e incoerenti ha ucciso la logica e l’etica, con i suoi desideri meschini ha abbassato l’orizzonte fino a disgustare perfino iddio.

Ha tollerato di farsi governare da stirpi di nani lascivi, di scilipotidi osceni e di farabutti analfabeti. Ha messo a tutti i posti di comando gli uomini più mediocri e più vigliacchi. O le donne, se è per questo. Ha lodato filosofi inesistenti e scrittori senza talento. Ha accettato ogni compromesso, non ha mosso un dito contro gli abusi, ha isolato i dissenzienti e adorato i coristi. Non ha lasciato alla trasparenza una sola finestra, ha consumato ogni soperchieria senza vederla. All’insaputa perfino di se stessa. E’  ingrassata a spese dei propri figli.

Caro amico ti scrivo per ricordarti che non è sempre stato così. Tu ad esempio bene hai vissuto e pensato e scritto e dipinto, e tanta gioia hai dato come hai potuto. E hai saputo dire parole di speranza fino all’ultimo, anche ora. E il ricordo di alcuni della tua generazione è ancora quello che ci tiene in vita.

Il resto è davvero buio: che i nostri figli trovino qualche luce altrove, che non la chiedano più a noi che non abbiamo più che la vergogna, quando va ancora bene. E io so che sono anche ingiusta. È parte del buio, parte della tristezza. Caro amico, ti scrivo il saluto della buonanotte. Che un angelo ci sfiori col suo riso, e la disperazione ci cada dal cuore. Domani.

Roberta De Monticelli        Il Fatto  3 maggio 2013


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