Volevamo l’impossibile, adesso ci accontentiamo di un treno in orario
Caro Serra, sono una studentessa di Medicina, ho quasi 22 anni. Abito in una grande città ma sono costretta a frequentare le lezioni in una succursale della mia facoltà che si trova in un’altra città. Ogni giorno di buon mattino mi unisco al popolo dei pendolari, salgo su un treno e mi faccio un’oretta di viaggio. I treni sono mediamente sudici, quasi mai puntuali, le navette e i mezzi di collegamento fra stazione e università sono anche peggio dei treni, Nonostante questo, faccio quello che mi va di fare e studio quello che voglio studiare, quindi va bene così, anche se certi giorni è difficile e la stanchezza ha la meglio sull’entusiasmo.Oggi ero alla stazione e aspettavo un treno per tornare a casa che portava la solita mezz’ora di ritardo. Guardavo il gruppo di studenti che era con me, tutti stanchi, tutti più o meno sorridenti, abbastanza pazienti e rassegnati e improvvisamente credo di aver capito cosa abbiamo noi giovani italiani che non va: siamo abituati alle cose che non funzionano bene. Ci abbiamo fatto il callo, è la nostra normalità. Ci sorprendiamo quando un treno o un autobus arrivano in orario, nella stessa misura in cui riteniamo una gran botta di culo (mi perdoni l’espressione) trovare un lavoro dignitoso al termine di un percorso di studi. Ci stupiamo per piccole cose: se uno sconosciuto è gentile con noi, se una lettera spedita arriva a destinazione in un tempo ragionevole, se un professore risponde a una mail entro un paio di giorni. Alzare le spalle pensando “è così che funziona” non è uno stimolo a essere persone migliori, anzi se possibile ci rende molto autoindulgenti quando siamo peggiori di come dovremmo e potremmo essere. Sono ancora abbastanza idealista da credere che sia il piccolo miglioramento individuale di ciascuno a costituire un miglioramento collettivo. Il problema è che le nostre aspettative sono basse, perché ci siamo abituati a pretendere poco sia dalla realtà che ci circonda, sia da noi stessi, e il nostro impegno a poco a poco è diventato proporzionato alle nostre aspettative.
Gaia Pedicini
Un’analisi perfetta. Complimenti, Gaia, da chi ha quasi il triplo dei tuoi anni: mi hai insegnato qualcosa. È proprio vero, le nostre aspettative sono basse (sempre più basse) perché ci siamo assuefatti alla mediocrità, la consideriamo normale, inevitabile. E “pretendere poco dalla realtà”, come tu scrivi, porta a pretendere poco anche da noi stessi. Uso il “noi” perché questo circolo vizioso non riguarda solamente voi ragazzi. Riguarda l’intera comunità nazionale, compresi quegli adulti che, come me, a vent’anni pretesero moltissimo, anzi pretesero I’impossibile, e oggi hanno talmente abbassato lo sguardo da stupirsi anche loro se un treno locale è puntuale, o ha almeno uno dei cessi aperto e funzionante. La mediocrità è contagiosa, deprime, oltraggia, se ti specchi in un mondo sbrecciato, vecchio, che non ha cura di sé, difficilmente riesci a immaginarti forte, nuovo, libero di disporre della tua vita. Non so dirti se ne usciremo, e come. Ma credo che la strada sia esattamente quella che indichi: cercare di migliorare se stessi, offrire qualcosa di più. Avere cura delle proprie azioni, delle proprie cose, e sperare (o illudersi ) che di quella cura il mondo sappia assorbire qualcosa. Forse non basta, ma è una pre-condizione. Siamo un Paese, dopotutto, che del bello, del “ben fatto”, dell’accuratamente concepito e realizzato, si è nutrito per secoli. In mezzo a oceani di ignoranza e di soggezione abbiamo comunque saputo costruire pezzi di società, di città, di paesaggioche sono il contrario esatto della mediocrità. Dovessi inventarmi uno slogan che guidi la riscossa sarebbe: la mediocrità non è italiana. Tu, Gaia, rispetto alla mediocrità, sei almeno già un passo più in là.
Michele Serra in Venerdi di Repubblica 25 ottobre 2013, rubrica “in posta”