Non si parla più di clima né di quel che accadrà della terra, da quando la crisi è entrata nelle nostre vite stravolgendole con politiche recessive, disuguaglianze indegne, e una disoccupazione che assieme alla speranza spegne l’idea stessa di futuro. La terra lesionata era il grande tema all’inizio del secolo, e d’un colpo è stata estromessa dal palcoscenico: non più male da sventare, ma incubo impalpabile. Diritto troppo immateriale e nuovo, accampato dal pianeta.
Esiste invece, l’infermità della terra che l’uomo ha causato e sta accentuando: anche se è caduta fuori dal discorso pubblico, anche se è divenuta invisibile come certi malati incurabili che non vogliamo guardare da vicino, e per questo releghiamo in ospizi lontani. È come se, paradossalmente, la crisi ci avesse liberati dell’ineffabile paura che avevamo negli anni Novanta — la morte del pianeta — mettendo al suo posto tante altre paure: non meno angosciose, ma più immediate e senza rapporto con quella trepidazione non più così concreta, traslocata nelle periferie dei nostri pensieri e inquietudini.
Il ritorno alla realtà, sotto forma di ennesimo allarme dell’Onu, è avvenuto domenica, con la pubblicazione del terzo rapporto della Commissione intergovernativa sul cambiamento climatico (Ipcc). Seicento scienziati di 120 paesi hanno emesso il loro verdetto: possiamo ancora cambiare la storia, ma il tempo a disposizione si accorcia fatalmente. Sembra di vivere le ultime scene del film di Lars von Trier, quando sulla terra sta per schiantarsi il pianeta chiamato Melancholia: è la depressione a darci questa strana, calma indifferenza.
Per nostra incuria, e cecità, la terra continua a surriscaldarsi, e sempre più arduo sarà rispettare l’obiettivo fissato: evitare che l’aumento della temperatura superi i 2 gradi centigradi. Soglia fatidica, oltre la quale il globo è messo mortalmente in pericolo dalle emissioni di anidride carbonica e gas serra. Conosciamo quel che può seguire: scioglimento dei ghiacciai, innalzamento dei livelli marini e cancellazione di intere regioni, cibo insufficiente per l’umanità, scomparsa di foreste, estinzione massiccia di piante e specie animali.
La crisi economica ha svegliato in questi anni molte coscienze, prima dormienti: sulla debolezza politica dell’Europa, su terapie di austerità rivelatesi devastanti per tanti cittadini e anche per le democrazie. Non così per quanto riguarda la prevenzione del disastro climatico, rinviata a chissà quali giorni migliori. Recessione, disoccupazione: oggi sono le nostre preoccupazioni prioritarie, ma purtroppo uniche. I cervelli si stanno abituando a lavorare a metà, quasi in preda all’emiplegia. La terra può attendere, anche se Melancholia s’avvicina. Un eminente manager pubblico, l’ex amministratore delegato dell’Eni Scaroni, è giunto sino a chiedersi pubblicamente, nel luglio scorso: «Abbiamo investito in modo dissennato nelle energie rinnovabili. Eravamo ubriachi?»
E il nuovo ministro dello sviluppo, Federica Guidi, ha illustrato alla Commissione Industria qual era il suo «feeling»: quel che occorre è «la massima attenzione alla crescita sostenibile», e al tempo stesso la «rimozione degli ostacoli burocratici che impediscono sia lo sviluppo della nostra capacità di rigassificazione per beneficiare della rivoluzione del gas da argille ( shale gas), sia gli investimenti privati nella ricerca e produzione di idrocarburi». Il feeling è parecchio contraddittorio: le perforazioni necessarie per estrarre shale gas mal si coniugano con l’economia verde, comportando spropositati dispendi di acqua, inquinamento delle falde e, secondo alcuni, possibili terremoti.
Resta la verità attestata dai 600 scienziati. Siamo ancora rovinosamente dipendenti da combustibili fossili. Petrolio, carbone, gas hanno contribuito per il 78% all’incremento totale di emissioni dal 1970 a 2010, e peseranno ancor più se nulla cambia. Se i paesi produttori di petrolio e gas resisteranno alle misure suggerite dall’Ipcc, se i governi non introdurranno forti tasse sull’emissione di diossido di carbonio ( carbon tax ), e se insisteranno nel sovvenzionare i combustibili fossili invece di investire in energie rinnovabili, riforestazione, edilizia a bassi consumi di carburanti. La Germania ad esempio emette più anidride carbonica, nonostante la svolta energetica, perché la dipendenza dal carbone si è gonfiata. Dicono che mancano i soldi, ma gli esborsi sono pochi rispetto alle spese ineluttabili quando la catastrofe sarà alle porte. Il passaggio a un’economia basata su combustibili lowcarbon costerebbe oggi 1-2 punti di ricchezza nazionale. Nel 2020 salirebbe a 4-5 punti. Diverrebbe proibitiva dopo il 2030.
Dicono anche che la crescita si blocca, se fin d’ora proteggiamo la terra. È menzogna: lo sviluppo si rallenterebbe solo dello 0,06%, assicurano gli scienziati. Risale al 1979 il libro che il filosofo Hans Jonas scrisse sul Principio responsabilità , e sulla paura per la sorte terrestre: un testo avveniristico, all’epoca. È quella paura che va riesumata, senza posporla ai timori che incutono disoccupazione e crescita lenta. Non ci è dato di affrontare prima la recessione, e dopo il clima. La vera dissennatezza è non contare fino a due, non assolvere insieme i due compiti. La paura di veder perire il pianeta, e chi lo abita, è per Jonas costitutiva della responsabilità: «Non intendiamo la paura che dissuade dall’azione (lo sgomento, la paralisi, ndr) ma la paura fondata , che esorta a compierla». È una forma di amore del prossimo.
O meglio, direbbe Nietzsche, di «amore del più lontano»: è trepidazione per i viventi che verranno, scudo contro la distruzione che li minaccia. Alla domanda su cosa capiterà al prossimo-lontano, se non ci prendiamo cura di lui, la replica è chiara: «Quanto più oscura risulta la risposta, tanto più nitidamente delineata è la responsabilità. Quanto più lontano nel futuro, quanto più distante dalle proprie gioie e i propri dolori, quanto meno familiare è nel suo manifestarsi ciò che va temuto, tanto più la chiarezza dell’immaginazione e la sensibilità emotiva vanno mobilitate a quello scopo». Jonas ha addirittura riformulato l’imperativo categorico di Kant. Il dovere etico-politico ordina tuttora di «agire in modo che la tua volontà possa sempre valere come principio di legislazione universale», ma si estende così: «Agisci in modo che gli effetti del tuo agire siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra».
Inutile a questo punto puntellare industrie (tra cui l’automobile) che emettono veleni. La riconversione deve essere radicale, e nell’immediato comporterà sacrifici. Inizialmente ostili, Usa e Cina cominciano a capirlo. Il caso Ilva è esemplare: sacrificare la vita in cambio di posti di lavoro è alternativa funesta. La crisi economica ci insegna questo: può secernere il male o il bene. Fa riscoprire diritti irrinunciabili (il benessere, il lavoro) ma può condannare all’oblio il diritto del nuovo soggetto che è la terra. Mancano disgraziatamente le istituzioni, che tutelino ambedue i diritti. Onu e Ipcc sono organi intergovernativi, e somigliano alla Società delle Nazioni: del tutto inefficace, fra le due guerre, perché ogni Stato aveva la sua inviolabile sovranità. L’Europa fa più progressi sul clima, perché in parte già è sovranazionale.
Il mondo in cui viviamo non è all’altezza dell’imperativo di Jonas. A fronte di lobby ormai transnazionali (le industrie petrolifere, ma anche il commercio d’armi, le mafie) non si erge un potere politico egualmente transnazionale, che le argini. L’ordine globale è ancora quello westphaliano escogitato nel 1648, che mise fine alle guerre di religione ma suscitò i mostri dei nazionalismi. Gli stessi mostri pronti a vanificare i moniti dell’Onu e dei suoi scienziati.
Barbara Spinelli La Repubblica 16/04/2014