Anticipiamo un capitolo dal libro “Una breve primavera. I ragazzi sperduti della Resistenza tradita di Pierfranco Pellizzetti, in questi giorni in libreria per Sedizioni.

La storia dell’Italia repubblicana può essere raccontata come una versione in costante aggiornamento del mito di Saturno; la divinità che procreava i figli per poi sbranarli. Ossia l’interminabile sequela di coorti generazionali prosciugate delle loro migliori energie intellettuali e invariabilmente mandate al macero. Si cominciò – come si era detto a proposito di Bruno/Scoglio – con i ragazzi che per due inverni di ferro e di fuoco – tra il 1943 e il 1945 – si illusero (vennero illusi) di essere destinati a canalizzare le esperienze formative e fondative della lotta partigiana nello spirito fecondatore di una classe dirigente rinnovata; profondamente diversa per passione e civismo da quelle che l’avevano preceduta, durante il Ventennio e prima ancora, nell’Italietta dei re sciaboletta, dei notabili e delle burocrazie borboniche di ritorno. Tra “il fascismo come autobiografia di una nazione”, come scrisse Piero Gobetti, e il “quest’Italia non ci piace” di Giovanni Amendola.

Difatti i ventenni del 1945 vennero rapidamente normalizzati da uomini intimamente vecchi, nella mentalità del troncare e sopire prima ancora che anagraficamente, presidiatori dei varchi d’accesso al potere in una logica di puro controllo.

Residui delle nomenclature compromesse con i tanti passati, talebani ante litteram del pensiero dominante o – piuttosto – funzionari dei ritrovati partiti di massa, marchiati nell’essenza più profonda dalla “legge ferrea delle oligarchie”. E fu una facile mattanza di energie nuove. Soprattutto in quanto altamente vulnerabili nella loro inesperienza, nella loro ingenuità.

Solo quelli che – sottomettendosi con una rapida abiura omologante all’ordine in consolidamento – accettarono di adattarsi alle nuove situazioni, vennero salvati dal destino della messa ai margini attraverso processi di cooptazione individuale.

Operazione che modificava immediatamente il DNA intellettuale dei cooptati, desertificandone i valori civili e trasformandoli in pallidi cloni dei loro stessi cooptatori; perfino invecchiandone precocemente le fattezze. In ogni caso e comunque – tanto per gli “emarginati” come per gli “imbarcati” – un’immensa dissipazione di gioventù. Fu la prima, ma non certo l’ultima volta che ciò avvenne. Nell’assoluta priorità assegnata all’ordine, al quieta non movere, il rinnovamento poteva e doveva essere teatralizzato, mai effettivo. Nel graduale succedersi di stagioni, eppure sempre e solo invernali.

Ma i ragazzi scesi dalla montagna nel ’45 continuavano a non capire, a non rendersene conto; così come gli altri ragazzi venuti dopo di loro: intrappolati nei marchingegni discorsivi che promettevano l’ennesimo largo ai giovani, a patto di riconfigurarsi secondo i criteri cinici della conservazione più ingenerosa e algida.

Un paradigma dominante, quello delle priorità indotte dai manovratori, di derivazione diretta dalla vocazione oligarchica insita nel sistema politico (la cui priorità costante era ed è quella di tenere a bada la società), su cui all’epoca andavano innestandosi le blindature d’acciaio e veleno della Guerra Fredda. La prova generale di una rappresentazione della realtà all’insegna della paura quale strumento per deviare l’attenzione dalle condizioni concrete, intese come rapporti di forza e poste in gioco, allo scopo di tutelare gli equilibri sociali e politici egemoni. Mimetizzandoli.

Una storia lunga mezzo secolo (la Prima Repubblica), che si intreccia con la cronaca della divisione del lavoro tra le organizzazioni cardine di quegli equilibri: la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista, con le loro formazioni satellite. Poi ribadita al ribasso nella Seconda, di Repubblica; quella della collusività e dell’affarismo senza neppure più la giustificazione di un mondo diviso in blocchi. Vent’anni dopo la fine degli anni Quaranta e per poco più di un altro biennio, la generazione successiva a quella resistenziale sembrò in procinto di forare la cappa gommosa che avvolgeva l’intera società, imprigionandola nelle sue appiccicose pareti flessibili e mobili. E fu il Sessantotto.

Presto ci si rese conto che quanto veniva rappresentato come un’insorgenza politica era – in effetti – una rivoluzione nei costumi; ciò che si sarebbe potuto definire nel lessico di allora “una perturbazione nella sovrastruttura”, presto riassorbita. Del resto senza troppi costi per i soliti normalizzatori. E ancora una volta tra quegli irriducibili contestatori dei padri, scopertisi libertari al tepore di un Joli Mai, ci furono i lesti a riciclarsi quali quadri e uomini di mano della restaurazione immediatamente successiva. Fornendo ennesima conferma dell’immortale aforisma secondo cui “lo scettico è un metafisico deluso”.

Quei sessantottardi pentiti che schiacciarono sotto il peso della loro dialettica multiuso i fratelli minori, offrendo le proprie argomentazioni situazioniste ai laboratori che già stavano predisponendo gli armamentari per l’imminente stagione thatcheriano-reaganiana: l’ordine Neolib, che arruolò i migliori propagandisti proprio nelle file degli ex contestatori; efficacissimi nello spingere la generazione dei propri figli lungo la china poverissima del rampantismo mistificatorio. L’ingannevole “arricchitevi”, mentre strati sempre più vasti della società precipitavano nella precarizzazione e nella desertificazione del lavoro.

Quegli stessi propagandisti che ora continuano a militare in prima linea nel tentativo di sbaraccare l’ultimo residuato del principio di integrazione tra ragazzi/studenti diversi, per estrazione familiare ed altre ragioni (oggi sempre di più multiculturali): la scuola pubblica repubblicana.  L’ennesima dissipazione consumata sull’altare della società chiusa, che ha deliberatamente sabotato ogni “ascensore” che consentiva, ai meno favoriti nella lotteria delle nascite, di potersi elevare dalle condizioni originarie.

Paragonando il grigiore del tempo con le luminose giornate in cui sembrava che un mondo migliore fosse ormai a portata di mano, confrontando le facce mummificate dei potenti e dei loro scherani con i volti spavaldi (e pure incoscienti) degli Scoglio, dei Saetta o dei Bisagno, si ha la percezione tangibile di quanto grande sia stato lo spreco perseguito; di opportunità come di persone. Spreco che si è andato reiterando proprio perché la logica dissipativa è sempre rimasta tale, immutata.

A questo punto ci si può chiedere: c’è qualcosa da salvare, una qualche morale ricavabile dalla storia di Bruno/Scoglio e i suoi compagni? Nello smarrimento fatalistico e privo di speranza dei tempi in cui viviamo sembrerebbe difficile trovare una quadra. Ma quei ragazzi spavaldi e pure incoscienti si sarebbero ribellati a una tale risposta. Anche perché il momento in cui continuavano a coltivare le loro speranze non era di certo migliore dell’attuale: la guerra civile, il paese occupato da un esercito straniero, le divisioni mortali che si riproducevano perfino all’interno degli stessi nuclei familiari.

Eppure quei ragazzi continuavano a pensare al futuro. Ma per poterlo fare coerentemente lottavano, imbracciando le armi. E quando smisero di lottare fu il momento in cui vennero marginalizzati e sconfitti.

Sconfitta derivata dal fatto che – in quel caso – non si trovavano più di fronte un nemico dichiarato, assolutamente riconoscibile; bensì spire avvolgenti che facevano perdere il senso dell’orientamento.

Forse sta qui la lezione (involontaria) che ancora ci trasmettono, il messaggio nella bottiglia ai coetanei di tanti lustri dopo. Per non essere sconfitti ancora una volta. La ragione per cui vale la pena di ricordare. E rivalutare il significato intrinseco di quella sconfitta. Come nel caso di Bruno/Scoglio, che un anno dopo la sua rocambolesca fuga dall’Italia, a seguito dell’arresto per traffico d’armi, fu condannato dal Tribunale di Genova a una pena ridotta e simultaneamente condonata.

Questa la prosa (un po’ stentata) con cui il 23 maggio 1950 ne scrisse il quotidiano locale il Lavoro: “il movente furono motivi politici di solidarietà verso i combattenti contro un regime di dittatura. In queste parole della sentenza istruttoria è sintetizzato il pensiero della cittadinanza tutta che vede in questi giovani, anche se eccessivamente esuberanti, il risultato di una tradizione libera ed indipendente da ogni giogo totalitario di qualsiasi colore”. Ma già da anni era iniziata la sua ricerca dell’isola che non c’è. Dove i bambini sperduti di Peter Pan trascorrono i giorni avventurosi nel suo tempo immobile.

Pierfranco Pellizzetti         in repubblica.it   da  micromega  del  24 aprile 2014

 

vedi:  La defascistizzazione mancata

Quella giovinezza febbrile bruciata nella passione politica


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