Nel nuovo saggio Stefano Rodotà illustra il destino di un principio nobile ma debole che ritorna nell’era della disuguaglianza

NEL Gargantua e Pantagruel Rabelais racconta che, pronunciate nel freddo dell’inverno, alcune parole gelano e non vengono più udite, per poi, quando cambia la stagione, tornare a parlarci. È quanto sembra accadere alla categoria di solidarietà, cui Stefano Rodotà dedica il suo ultimo saggio, edito da Laterza col titolo Solidarietà. Un’utopia necessaria. Dopo essere stata a lungo esiliata dalla sfera del discorso pubblico, essa torna a riaffiorare con rinnovata attualità in una fase in cui il lessico freddo della scienza politica sembra insufficiente a raccontare la nostra vita. Con la consueta competenza, congiunta a una straordinaria passione civile, Rodotà ne percorre la genealogia, analizzandone la storia complessa, fatta di slanci e ripiegamenti, di arresti ed espansioni.

Teorizzata all’origine della stagione moderna da La Boétie, Locke, Montesquieu come compenso al dispiegamento dell’individualismo, essa è espressa dal principio di fraternità nella triade rivoluzionaria, insieme a quelli di eguaglianza e di libertà. Già da allora, tuttavia, la solidarietà appare più fragile delle altre due nozioni, perché situata in un orizzonte più morale che politico.

Segnata dall’esperienza cristiana, piuttosto che alla giustizia, essa è spesso ricondotta a un atteggiamento di carità nei confronti del prossimo. Così nel proclama del 18 brumaio Napoleone la sostituisce con il paradigma di proprietà. Rappresentata dalle rivendicazioni operaie nell’età della rivoluzione industriale, la solidarietà assume un rilievo politico nel primo dopoguerra, con la costituzione di Weimar. Ma è solamente dopo la seconda guerra mondiale, alla creazione del Welfare, che essa viene istituzionalizzata. Nella costituzione italiana in particolare il principio di solidarietà, menzionato nel secondo articolo, acquista consistenza nel rapporto con il doppio criterio del carattere fondante del lavoro e della dignità del lavoratore.

Tuttavia ciò non basta a consolidare stabilmente l’idea, e la pratica, di solidarietà. Rodotà non perde mai di vista il nesso costitutivo tra concetti e storia, il modo in cui la mutazione dei contesti, e anche dei rapporti di potere, modifica la prospettiva dei soggetti individuali e collettivi. La reale forza di un concetto non sta nella sua fissità, ma nella sua capacità di trasformarsi in base al mutamento dell’orizzonte in cui è situato. Collocato nel punto di incrocio, e di tensione, tra i piani dell’etica, del diritto e della politica, il criterio di solidarietà deve continuamente allargare i propri confini per riempire le forme sempre nuove che assume la politica. Se fino agli anni Settanta essa riguarda essenzialmente la sfera dello Stato – definito perciò, con un termine inadeguato e restrittivo, “assistenziale” – già dopo un decennio deve misurarsi con i processi di globalizzazione.

Ma proprio qui sta la difficoltà. È possibile trasferire la solidarietà dall’ambito nazionale a quello globale? Come superare le differenze che la globalizzazione non riduce, ma intensifica? Cosa può significare una solidarietà di tipo cosmopolitico? Come Rodotà ben dimostra con una fitta serie di rimandi ai Trattati e alle Carte costituzionali, in politica i processi di allargamento della cittadinanza non sono mai lineari. Anzi spesso subiscono intoppi e strappi che li mettono radicalmente in questione. A partire dall’Europa, vincolata a politiche di austerità che tendono inevitabilmente a schiacciare i membri più deboli sulla parete di un debito impossibile da scalare.

Quella che oggi è in corso è una vera battaglia che attraversa i confini degli Stati lungo faglie transnazionali. Da un lato coloro che rivendicano una costituzionalizzazione della solidarietà mediante politiche capaci di ridurre lo scarto tra privilegi degli uni e sacrifici degli altri; dall’altro le grandi centrali finanziarie che cercano di neutralizzare lo stesso principio di solidarietà, limitandone gli effetti, riducendone la portata, spoliticizzandone gli strumenti.

Un punto di resistenza a tale riduzione è costituito, per Rodotà, dalla categoria di “persona”, valida per ciascuno e chiunque, al di là della sua specifica condizione. E perciò paradossalmente coincidente con il principio di impersonalità. Il fatto che, ad esempio, nelle donazioni di organi o del seme, il donatario non debba conoscere l’identità del donatore, costituisce il culmine dell’atto di solidarietà. Se a donare è sempre una persona ad un’altra persona, a proteggere quel dono da qualsiasi tipo di interesse personale è la sua modalità anonima ed impersonale. Come ricorda Rodotà, all’origine della nostra storia il mistero di questo eccesso è narrato nella parabola del samaritano: la vera solidarietà non sta nell’amore del prossimo e del conosciuto, ma dello straniero e dello sconosciuto.

Il libro: Solidarietà   di Stefano Rodotà  ed. Laterza    euro 14

Roberto Esposito     Repubblica  20 11 2014

 

 

Solidarietà, la parola cancellata

Per caso un libro e un film, entrambi con la forza di una rivelazione e di una profezia, sono usciti quasi insieme e raccontano quasi la stessa storia, lo stesso pericolo, lo stesso camminare sul vuoto. Sto citando Solidarietà di Stefano Rodotà, editore Laterza, e Due giorni, una notte dei fratelli Dardenne.   Intanto, per caso, tre richiami si sono sovrapposti nello stesso periodo storico (i nostri giorni) per dirci che ci sono, nella vita intorno a noi, sempre meno tracce di un sentimento che credevamo radicato e profondo e non rinunciabile.   Il primo richiamo viene dal modo di intendere e organizzare il lavoro. In esso la solidarietà è come l’aria condizionata: va bene, aiuta, ma ci saranno provvedimenti immediati se costa troppo.   Poi l’ammonizione è cambiata nel nuovo precetto: ogni cosa si cambia se un’altra cosa, pazienza se è peggiore, costa meno. Ed ecco la “delocalizzazione”, te ne vai con tutta la fabbrica o tutto l’ufficio, dove conviene.

Nel nuovo luogo ricomincerai l’avventura di colui che porta lavoro con l’intraprendenza della tua impresa. Non è colpa tua se chi lavora è pagato molto meno, e forse ha un’età sbagliata per quel lavoro. Nel luogo che avrai abbandonato al massimo avrai “dimostrazioni e cortei per futili motivi” (come scrive un lettore a Sergio Romano, Il Corriere della Sera, 22 novembre, dopo i cortei di Roma ). E la “delocalizzazione” come libera scelta dell’impresa avrà il sostegno del governo che ha premiato addirittura con autorevole visita (e portando, mi immagino, la gratitudine del Paese), la delocalizzazione della Fiat da Torino a Detroit, insieme con tutto l’indotto e lasciando tutti gli operai italiani a carico della Cassa integrazione.

Ma, al di là degli interessi privati, c’è un secondo richiamo. Chi governa, ci viene detto, non ha sentimenti o progetti umanistici, Chi governa guarda le carte e decide. Se le carte gli dicono che è molto più utile far visita agli imprenditori e respingere a spintoni il sindacato, non facciamo la sciocchezza di domandarci se la decisione è o non è di sinistra. Buona politica è restare vicino al potere. Cos’altro vuoi chiedere a chi governa? Se non ti piace, vai a marciare con i cortei futili e lascia il gioco nelle mani di coloro che sanno giocare.

Poi c’è un terzo vigoroso richiamo che ci ricorda il nuovo spirito del nostro tempo: la folla grida “non ne possiamo più”. E non intende la perdita del lavoro, i ragazzi che non sono né in fabbrica né a scuola, i disabili a carico esclusivo di chi se li trova in casa, i giovani mantenuti dalle pensioni dei vecchi che sono sempre sul punto di dovere offrire un loro “contributo di solidarietà” ad altri che non sono mai indicati, come se si trattasse di una ruota della fortuna. No, in questo caso si discute con rabbia e furore di quaranta bambini e adolescenti, fuggiti dalla guerra e scampati al deserto e al mare che sono “troppi” in ogni caso perché sono “negri”.   E sono prontamente cacciati, mentre nessuno governa questa vicenda, e la “solidarietà” viene giudicata o dannosa o ridicola. E poiché nessuno sa come eliminare i concetti, i sentimenti o le idee, la trovata, è di eliminare gli esseri umani, cacciandoli di quartiere in quartiere.

Ecco perché dobbiamo essere grati di una coincidenza che però non avviene per caso, ma perché gli autori del libro e del film di cui parlo, sanno in che luoghi e momenti viviamo. Il libro di Rodotà definisce la solidarietà “il modo in cui, nel corso dell’Ottocento, si sono sempre più fortemente intrecciate le lotte operaie, l’organizzazione di massa dei lavoratori, il progressivo riconoscimento dei diritti sociali. Da qui provengono le idee – forze che prima indicano e poi spianano il cammino verso il riconoscimento della solidarietà come riferimento necessario per l’agire pubblico e privato”.

Il film dei Dardenne è basato su un gioco che ricorda Marchionne: in una giovane fabbrica d’avanguardia gli operai di un reparto avranno ciascuno un bonus di mille euro se voteranno il licenziamento di una loro collega che renderà possibile quel premio per gli altri. In questo film la lotta sociale o il confronto politico non divampano mai. Non è questo il tempo di una simile narrazione (come non lo è nei discorsi sarcastici di Renzi contro i sindacati, e della mobilitazione, con torce e grida, delle periferie italiane guidate dai fascisti, contro “i negri”). La giovane donna da licenziare, due bambini e un marito precario, fa il giro di tutti i colleghi (non è il caso di dire “compagni”) che devono votare per o contro di lei. C’è chi l’abbraccia ma non può rinunciare a mille euro, c’è chi fa a botte perché non vuole neppure parlarne, chi voterà per lei anche se non può.

Alla fine il risultato è esemplare: i voti sono esattamente divisi a metà, perfetto ritratto del tempo: c’è ancora chi vuole essere solidale, me sempre più spinto ai margini da un gioco che non si ferma, infatti il giovane proprietario propone alla protagonista di restare. In seguito licenzieranno un altro (e fa capire che si tratta dell’unico nero del gruppo). La donna aggiunge il solo voto di solidarietà che mancava: il suo. E lo fa nell’unico modo possibile: si dimette prima che di essere licenziata, liberando dall’incubo – paura – promessa tutti gli altri.

Il libro e il film sono dunque la seria, rigorosa e triste narrazione di una notizia che cambia il nostro tempo e che non riguarda né la religione né la politica, ma qualcosa di più vasto e profondo, la solidarietà. Credevamo che fosse l’imprinting non rinunciabile delle nostre vite. Invece sta andando via.

Furio Colombo      Il Fatto Quotidiano 23/11/2014.

 

vedi:  Si chiudono le coscienze, ma se fossimo noi al loro posto?

Rodotà:  una grande occasione perduta


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