Possiamo evitare un’altra Lepanto?
La società occidentale è stretta tra i suoi principi democratici e l’insofferenza per le idee diverse dell’Islam.
La scelta dovrà essere tra la reciprocità o la soppressione dell’altro.
La nostra idea di Stato, centralizzato e dotato di solidi confini è del tutto diversa da quella di umma islamica, comunità senza confini.
La storia politica internazionale aveva conosciuto una delle sue svolte più significative nel 1989, con la fine del bipolarismo. Allora tutti pensarono che il mondo fosse migliorato e tutto sarebbe diventato più facile. Ma nel 2001 si dovette ammettere che le cose non erano andate così bene, e anzi da allora abbiamo avuto due guerre (Afghanistan e Iraq), limitate ma devastanti, mentre di una terza che avanza non abbiamo compreso i connotati, e una gravissima crisi finanziaria internazionale. Molti ne hanno dedotto che quella profezia, in sé infondata e anche provocatoria, lanciata da Samuel Huntington, che la diversità delle culture dominanti (ora che, apparentemente, le ideologie politiche sarebbero morte — ma questo è un punto sul quale la riflessione dovrebbe essere molto più attenta) avrebbe finito per causare lo scontro tra l’Occidente e l’altro maggiore raggruppamento identitario al mondo, l’Islam.
Se oggi viviamo le convulse, drammatiche e non di rado disgustose, vicende della lotta che si è scatenata nel cosiddetto Vicino Oriente, sembra che ci sentiamo ancora ripetere da Huntington (il quale però non è più tra noi da diversi anni) che la sua analisi era corretta e il grande pericolo verso il quale l’Occidente si sta lasciando trascinare è lo scontro non più soltanto ideale o teologico, ma violento e militare, con l’Islam che non potrà concludersi che con un vincitore e uno sconfitto. Una nuova Battaglia di Lepanto ci attende?
Tutte queste vicende sono state (e questo Huntington non l’aveva previsto), immerse in una dimensione strategica che va, nel nostro mondo occidentale, sotto il nome di «terrorismo», parola che per noi evoca pagine di storia terribili, dai tempi delle sue manifestazioni all’interno degli stati a quelli delle Twin Towers, di Madrid, di Londra. I nostri giornali riferiscono le vicende del Medio Oriente come la «lotta al terrorismo». Ma dov’è il terrorismo? I jihadisti (chiamiamoli così per semplicità) non uccidono gli americani perché vogliono conquistare gli Usa, ma perché vogliono costruire un tipo di società – sulle loro terre – distinta e diversa da quelle che vogliamo noi. Vogliono mandarci via dalle loro terre: possibile che non lo si capisca? Vogliono utilizzare loro le loro risorse.
L’Occidente deve decidere una cosa: se predilige l’idea dell’eguaglianza universale e dell’autogoverno (basi della concezione democratica) deve ritirarsi da dovunque non sia ben accolto, e permettere a chiunque di autogovernarsi come vuole (dopo ciò, potrà impegnarsi nella ricostruzione di rapporti di civiltà). Altrimenti deve avere una concezione della società secondo la quale l’idea occidentalistica è superiore a qualsiasi altra, e dunque essa deve combattere, ovunque nel mondo, modelli di società diversi. Una alternativa sconvolgente, non semplice perché molto coinvolgente, è quella cui Biennale Democrazia ci spinge ora con il riferimento alla categoria dei «Passaggi». Essi implicano un punto a quo («da dove veniamo»), l’analisi della situazione presente («chi siamo» diventati), quale futuro ci attenda («vero dove andiamo»). Se questa scansione (chi non vi ha riconosciuto il titolo di una delle opere più straordinarie di Paul Gauguin?) si presta all’individuazione di veri e propri punti di passaggio, meno chiaro è se essi siano spontanei e involontari, o se essi siano invece il prodotto di una nostra lucida e forse luciferina volontà o — chi sa — di errori che abbiamo commesso in buona fede.
L’Occidente è stretto tra principi astrattamente democratici e l’insofferenza (intollerante) per le idee “diverse” dalle sue; vorrebbe che tutti fossero uguali, ma vuole essere lui a sfruttare le risorse naturali dei “diversi”. O gli Usa (e noi con loro) ammettono il principio di «indifferenza universale» e lasciano che ciascuno si prenda quel che vuole, ovviamente in condizioni di reciprocità. In questo modo gli unici conflitti astrattamente possibili diverrebbero quelli che violano questo principio nel tentativo di appropriarsi di qualcosa che non è loro. La cosa non è banalissima: mentre da diversi secoli l’Occidente sfrutta l’Oriente, estremo o medio, questi due non hanno mai sfruttato l’Occidente. Noi siamo andati e andiamo da loro, mentre soltanto ora essi vengono da noi, e nel modo terribile che sappiamo. Oppure devono decidere di partire alla conquista del mondo.
Anche in questo caso, tertium non datur: o ci si accetta reciprocamente o uno deve sopprimere l’altro. Ragioni storiche non misteriose e ben comprensibili hanno fatto sì che l’Occidente si sia sviluppato prima e sia prevalso sul resto del mondo. Ma a un certo punto e un po’ per volta le differenze si attenuano e le distanze socio-culturali ed economiche si riducono. Sotto certi profili ci si potrà anche sovrapporre e accettare la stessa medicina e le stesse cure che oggettivamente migliorano le condizioni di vita dei malati; ma su come debba essere organizzato uno stato, ebbene, questo non è un tema sul quale si possa giungere all’accordo universale.
Anzi: l’idea di autogoverno che l’Occidente ha sempre propugnato nasce proprio dalla constatazione che gli stessi principi non valgono per tutti e non tutto piace ugualmente a tutti. L’idea di Stato occidentale non corrisponde per nulla a quella di umma islamica, una comunità senza confini. L’Occidente è passato dal Sacro romano impero (unitario, anche se solo in teoria) fondato sulla respublica christiana allo “stato moderno”, centralizzato, e dotato di confini vieppiù alti, solidi ed evidenti. La società planetaria islamica non ha mai cercato di organizzarsi in questo modo. Dobbiamo stabilire che hanno fatto male? Potrebbe anche darsi, ma dovremmo discuterne e darci una spiegazione delle ragioni della nostra presunta superiorità. In mancanza di tutto ciò, continueremo a combattere il terrorismo e non lo potremo sconfiggere per la semplice ragione che non c’è! Chiamiamo terrorismo quel che non ci piace: è sufficiente?
Cambiamenti radicali in un’epoca di crisi, attraversamenti di mondi da un luogo a un altro come raccontano le migrazioni dei popoli, come il succedersi delle generazioni, il superamento delle barriere, con nuovi inizi e opportunità. E poi ancora cambiamenti di identità, di età e di genere. Sulle molteplici declinazioni dei Passaggi si discuterà a Torino fra il 25 e il 29 marzo, per la quarta edizione di Biennale Democrazia. Ogni passaggio dischiude infatti orizzonti e apre possibilità: dalla crisi economica alle capacità previsionali dei Big Data, dalle grandi riforme che il nostro Paese deve affrontare alle scoperte della scienza, dalle mutazioni climatiche alle rivoluzioni del mondo del lavoro. La rassegna torinese sarà un laboratorio aperto, in cui trovare risposte e spunti sulle opportunità offerte dal cambiamento.
Saskia Sassen, sociologa della globalizzazione, Colin Crouch, padre del concetto di Postdemocrazia, Benny Tai Yiu Ting, costituzionalista e promotore di Occupy Central, una delle componenti di Umbrella Revolution, il movimento per la democrazia a Hong Kong, saranno alcuni dei protagonisti dei cinque giorni della manifestazione. Un’analisi del contemporaneo che parte necessariamente dal passato ancora recente, con una nuova declinazione del format I Grandi Discorsi della Democrazia, nato nell’edizione 2011: quest’anno il filone sarà dedicato alla celebrazione del settantesimo anniversario della Liberazione, dalle lettere dal carcere di Vittorio Foa, selezionate da Carlo Ginzburg e lette da Giuseppe Cederna, ai discorsi di Winston Churchill, che prenderanno corpo nell’interpretazione di Umberto Orsini, autori e interpreti ricorderanno uno dei passaggi fondamentali della nostra storia.
«Cento anni fa – commenta Gustavo Zagrebelsky, presidente di Biennale Democrazia – l’Italia entrava nel Primo conflitto Mondiale. Settanta anni fa si liberava dal fascismo e dall’occupazione nazista. E noi? Quali retaggi rifiutiamo e quali lasciti vogliamo accettare e tramandare? Di fronte alle politiche del rigore e al lievitare dei sentimenti antieuropei, l’Europa politica è ancora una speranza, o è già un’illusione? In un mondo attraversato da flussi finanziari e da scambi commerciali sconfinati, i confini devono valere solo per i popoli? E come sarà la cittadinanza del futuro?».
Domande aperte intorno a cui ruotano le sezioni del calendario di appuntamenti: Transiti e Barriere, sulle rotte dell’umanità in transito, delle merci, dei dati e delle informazioni; Eredità e Inizi, sulla memoria pubblica e sulle amnesie collettive, sulle ferite non rimarginate e sugli errori da non ripetere; Velocità e lentezza, sulle continue trasformazioni del mondo del lavoro, sul consumismo culturale e sull’immediatezza della comunicazione che informa tutto fino alle relazioni umane; Possibilità, sulla cittadinanza del futuro, sui possibili approdi degli epocali cambiamenti che stiamo vivendo. A cercare di accendere una luce, alcune grandi lezioni, da quella inaugurale di Claudio Magris sull’Europa delle culture a Carlo Ossola sull’Europa e le crisi delle civiltà, a Conversio et Corruptio di Massimo Cacciari.
Luigi Bonanate Il Sole Domenica 15.3.15