Il tempo migliore della nostra vita è quello di un grande combattente antifascista come Leone Ginzburg, della sua famiglia, dei suoi amici nella Torino della Einaudi, degli studiosi (pochi) che hanno saputo dire no alle lusinghe e alle minacce del regime. Ma anche quello della vita quotidiana di famiglie «normali», tra gioie e tragedie, festa e miseria.

Antonio Scurati, nel suo libro che esce oggi per Bompiani (pp. 264, € 18), racconta in parallelo tutto questo, gli uomini e le donne sotto il faro della storia e quelli che invece non lo sono stati, fino alla propria famiglia,   alla propria vicenda, dai nonni tra Milano e Napoli all’essere qui e ora e scrivere   un libro. Che scava fra memoria e storia, per dare al tempo un senso.   In questa pagina ne anticipiamo l’incipit.

Leone Ginzburg dice «no» l’otto gennaio del millenovecentotrentaquattro. Non ha ancora compiuto venticinque anni ma, dicendo «no», s’incammina verso la propria fine. Sebbene impugni soltanto una penna, muove quel primo, estremo passo con l’eleganza vigorosa e risoluta di uno sciabolatore che posizioni il pugno in terza, arma in linea: «Illustre professore, ricevo la circolare del Magnifico Rettore, in data 3 gennaio, che mi invita a prestare giuramento, la mattina del 9 corrente alle ore 11, con la formula stabilita dal Testo Unico delle leggi sull’Istruzione Superiore. Ho rinunciato da un certo tempo, come Ella ben sa, a percorrere la carriera universitaria, e desidero che al mio disinteressato insegnamento non siano poste condizioni, se non tecniche o scientifiche. Non intendo perciò prestare giuramento».

La spada spezzata.

Il giovanissimo libero docente di letteratura russa ha in pugno soltanto una penna, la utilizza verosimilmente da seduto, eppure si leva contro i simboli di morte, la guardia alta, la contrapposizione costante. Ginzburg traccia sul

Leone Ginzburg

foglio poche frasi, nessun clangore romantico, nessuna messinscena drammatica, solo quella pulizia di segno nell’aria sgombra che rimarrà sempre l’ideale trasmessogli da maestri prossimi e viventi, eppure lo studiolo dal quale indirizza quelle poche parole a Ferdinando Neri – preside della facoltà di lettere e suo relatore di laurea – si riempie di echi di altri maestri, maestri remoti e perduti, uomini che sigillarono la loro esistenza aprendosi un’arteria con la lama di un rasoio.

Mentre Ginzburg scrive il suo «no» al fascismo, nello studiolo risuonano frasi antiche, giunte fin lì da mondi lontani. Non intendo giurare. L’onore è un motivato rifiuto. L’onore è obbedire senza abbassarsi. L’onore è sentire la bellezza della vita. Ad ogni modo, clangore o non clangore, quando Ginzburg depone la penna, la spada è spezzata. Spezzando con questo rifiuto la propria promettente carriera e, in qualche modo, la vita, Leone Ginzburg, a nemmeno venticinque anni, entra nella ristretta comunità di quegli uomini dai quali dipende la sopravvivenza di tutti gli altri.

Tredici su milletrecento

Nel momento in cui Leone Ginzburg dice «no», l’obbligo per i professori universitari di giurare fedeltà al fascismo è in vigore da due anni e quattro mesi. È stato decretato nell’agosto del 1931 su suggerimento del ministro per l’Educazione nazionale, il filosofo Balbino Giuliano, imposto per la prima volta nell’ottobre di quello stesso anno e poi esteso anche ai liberi docenti nell’estate del 1933. Chi si fosse rifiutato di giurare avrebbe perso la cattedra. Senza pensione, nessun indennizzo, condannato all’isolamento. Ecco la formula del giuramento: «Giuro di essere fedele al Re, ai suoi reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempiere tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista».

Nei ventotto mesi che separano la promulgazione della legge fascista dal rifiuto di Ginzburg a sottomettersi, soltanto tredici professori ordinari di università statali si rifiutano apertamente di giurare perdendo cattedra, pensione e stipendio. Tredici su quasi milletrecento. I loro nomi vanno ricordati. Si chiamano Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Enrico Presutti, Francesco e Edoardo Ruffini, padre e figlio, Lionello Venturi e Vito Volterra. Tre di loro sono ebrei, quattro insegnano a Torino, quattro a Roma, uno a Napoli, uno soltanto nell’Università di Milano, Piero Martinetti, pure lui piemontese. Tra loro non c’è nemmeno un docente di storia moderna né un professore di letteratura. Sono tutti cattedratici insigni, uomini maturi o anziani, salvo Edoardo Ruffini, di gran lunga il più giovane, appena trent’anni. Saranno tutti espulsi nel giro di pochi mesi.

Il consiglio di Croce.

Eccetto questi tredici, tutti gli altri giurano. Perfino gli antifascisti professi. Alcuni lo fanno per non privare l’università del loro magistero di liberi pensatori, per rimanere al loro «posto di combattimento». Chinano il capo ma stringono i pugni. Seguono la linea del Partito comunista e il consiglio di Benedetto Croce, il grande filosofo liberale, bandiera della resistenza intellettuale al regime, l’unico italiano cui il fascismo consenta un’aperta dissidenza: non lasciate l’università in mano ai fascisti, aveva suggerito.

Ma sono in pochi a ripiegare per combattere ancora. La schiacciante maggioranza, è proprio il caso di dirlo, si lascia spingere da motivazioni per lo più modestamente ignobili. Chinano il capo e basta. Giurano, firmano, si accodano. Pagano con un battesimo di viltà la permanenza nella classe colta. Omologati nella lista, arroccati sulla loro cattedra, i chierici tradiscono. Vale per quasi tutti loro ciò che Gioele Solari, illustre filosofo del diritto, venerato maestro di numerosi antifascisti, dirà di sé, a guerra finita, nel 1949: «Non ebbi il coraggio, né dell’esempio, né del sacrificio». […]

Una gioia intima e violenta

Si dice che resistere procuri gioia. Uomini che, giunti alla prova, resistettero, ne hanno lasciato testimonianza a tutti noi che mai l’abbiamo affrontata e, probabilmente, mai l’affronteremo. Quegli uomini hanno scritto dei giorni in cui viene meno ogni speranza terrena, quando sembra che il dolore fisico ti opprima e che la vita, nel dolore, si dissolva. I giorni in cui gli amici sono lontani, forse ci hanno dimenticato, forse tradito. E quegli uomini ci hanno testimoniato che perfino in quei giorni, proprio in quei giorni, la resistenza opposta al male, al dolore, procurava loro «una gioia intima e violenta e turbinosa».

Chissà se Ginzburg, scrivendo quella lettera di resistenza, avrà gioito? Rinunciando a una brillante carriera, infrangendo la giovane promessa, avrà gioito, Leone? Non mi abbandonerò alla speculazione, non mi concederò nessuna introspezione, nessuna congettura sul suo stato d’animo. Noi che abbiamo avuto la sorte di nascere in un cantuccio di mondo agiato e protetto, noi non lo sappiamo cosa si prova in quei momenti, probabilmente non lo sapremo mai.

Antonio Scurati       La Stampa 16/4/2015

 

vedi:  La Resistenza di un letterato: LEONE GINZBURG

 

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