Da quando la crisi ha colpito l’Europa, siamo abituati a dire che l’Unione ha usato la Grecia come cavia. L’animale da esperimento andava sottoposto a una terapia intensiva di austerità, e la cura doveva essere somministrata da un potere oligarchico – la troika – che in parte si spacciava per europeo e addirittura federale, in parte includeva il Fondo monetario ed era quindi internazionale. L’esistenza di un laboratorio greco è pienamente confermata dal negoziato che Svriza ha avviato con l’Unione e il Fmi da quando ha vinto le elezioni del 25 gennaio. È venuto tuttavia il momento di andare più a fondo nell’analisi. Dobbiamo capire la genesi dell’esperimento in corso da cinque anni, e quel che ci dice sull’Europa e sulle finalità del test. Lo scopo comincia infatti a essere chiaro: un’oligarchia tecnico-politica sta usando la Grecia per accrescere il proprio potere disciplinatore nell’Unione, e ciò avviene collaudando un preciso modello di democrazia, de-costituzionalizzata e de-parlamentarizzata. Di questa de-costituzionalizzazione dobbiamo parlare, altrimenti non capiremo come mai gli sperimentatori continuino ad affermare che l’esperimento è stato non solo necessario ma addirittura efficace, pur sapendo che l’efficacia è più che dubbia e che l’Unione è in frantumi. Il Fondo monetario per primo ha confessato nel 2013 di aver mal calcolato gli effetti dell’austerity su crescita e occupazione.
L’erosione progressiva della democrazia
L’esperimento è riuscito, dal punto di vista dei collaudatori, perché la meta fondamentale è raggiunta. Le democrazie e le costituzioni nazionali stanno subendo erosioni progressive e il suffragio universale, soprattutto, viene ridotto a variabile fastidiosa, da aggirare o sacrificare. Efficacia e governabilità prendono il posto della rappresentatività, nella gerarchia delle priorità, e il colpo di mano è reso possibile dall’identificazione fra sovranità nazionali e sovranità popolari. La perdita delle prime, sempre più forte dal dopoguerra, trascina nel baratro anche le sovranità cittadine. Quest’evaporazione generale di sovranità viene in genere presentata come premessa di uno sviluppo federale dell’Unione, ma nessuna Federazione è in vista, sicché la sovranità semplicemente si disperde, a vantaggio dei poteri che gestiscono la globalizzazione e sono chiamati sbrigativamente mercati.
Il negoziato fra Atene e Unione assumerebbe tutt’altra forma, in un’unione politica che fosse federale. Conterebbero gli argomenti avanzati dal governo greco – esisterebbe un’agorà europea- e non prevarrebbe la potenza relativa di questo o quello Stato. Non è pensabile, in una Federazione, che uno Stato membro venga punito, per il proprio debito, con l’estromissione dalle istituzioni federali e dalla loro moneta. La Federazioni nascono proprio per evitare questo. Il fatto è che assistiamo a una formidabile regressione dell’Europa, e questo è il vero esperimento in corso. Il caso greco serve a mettere in questione l’idea sorta nel dopoguerra di un’Europa che sormonti in tre modi i vecchi equilibri fra potenze nazionaliste -la balance of power che scatenò due guerre mondiali nel ’900: creando permanenti vincoli di solidarietà fra gli Stati, preservando le sovranità popolari che fondano le democrazie costituzionali, e facendo della lotta alla povertà, del Welfare, il perno della nascente comunità.
La nuova Europa oligarchica che nella crisi è andata consolidandosi è governata da un fìnto “federalismo degli esecutivi”, come ha scritto Jiirgen Habermas, e il direttorio è responsabile dell’entropia che stiamo vivendo: un graduale depotenziamento dei Parlamenti, e una tendenza dell’unità europea a spoliticizzarsi e morire. L’entropia dell’Unione europea non comincia oggi ma già negli anni 70, quando la Commissione Trilaterale incaricò tre politologi di redigere il vademecum della democrazia decostituzionalizzata, al fine di renderla “governabile”. Penso al rapporto scritto nel 1975 da Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki e intitolalo La crisi delia democrazia. Oggi si discute molto di democrazia amministrata (martaged democracy), a proposito dell’autocrazia di Putin. Ma siamo noi a vivere, per primi, una democrazia sotto amministrazione controllata. E se parlo di formidabile regressione, è perché quel che fa ritorno è l’antica offensiva ottocentesca contro il suffragio universale: quella che imperversò quando in Inghilterra furono introdotte le prime estensioni del diritto di voto. Il suffragio era il nemico da abbattere, perché metteva in forse i vecchi poteri costituiti. La stessa polemica colpì, grosso modo negli stessi anni, i primi timidi tentativi di introdurre leggi di Welfare contro le devastazioni sociali della rivoluzione industriale. Ambedue, suffragio e Welfare, rappresentavano una minaccia per le élite fino ad allora protette, e quindi per le autorità dei governi.
C’è del marcio nella nascita dell’euro
Il fatto è che l’Europa non si sta costruendo. Si sta de-costruendo, come il caso greco rivela. In questa decostruzione l’ortodossia resta tale, proprio perché è una teologia politica: nessun elemento del dogma può essere confutato senza confutare l’apparato di potere che l’esprime. L’infallibilità è correlata strettamente alla permanenza di tale potere. Per questo c’è del marcio nel regno d’Europa. E c’è del marcio, infine, nella nascita e gestione dell’euro. L’errore tende a ripetersi uguale a se stesso: si procede unificando un settore importante -la moneta, in prospettiva la difesa – senza mai far precedere l’unità politica fra europei e una costituzione democratica che permetta ai cittadini di controllare le sovranità che vengono dislocate. Ogni volta è un fallimento, ma ogni volta il modello viene riproposto come il più”pragmatico”, dunque più efficiente. È il più distruttivo, come disse già nel 1971 l’economista Nicholas Kaldor, più volte citato dal ministro Yanis Varoufakis, a proposito dell’unione economica e monetaria- il cosiddetto Piano Werner- che già in quegli anni si discuteva.
Le sue parole sono profetiche: “Verrà il giorno in cui le nazioni d’Europa saranno pronte a fondere le proprie identità nazionali e a creare una nuova Unione europea: gli Stati Uniti d’Europa (…) Questo implicherà la creazione di una piena unione economica e monetaria. Ma è un’idea pericolosa pensare che l’unione economica e monetaria possa precedere un’unione politica: che agirà – e qui Kaldor cita Werner – come un ‘lievito capace di far nascere l’unione politica di cui comunque non potrà fare a meno nel lungo periodo”. Perché se la creazione di un’unione monetaria e di un controllo della Comunità sui bilanci nazionali genererà pressioni che conducono al crollo dell’intero sistema, tale creazione non promuoverà ma impedirà lo sviluppo di un’unione politica“. Le parole di Kaldor andrebbero ricordate a chi oggi immagina la futura “governance” dell’eurozona compiacendosi di quanto fatto sinora. Penso a quel che ha detto Mario Draghi, il 26 marzo al Parlamento italiano. Mollo giustamente, egli osserva che il vizio d’origine fu di mettere al posto di comuni istituzioni (suppongo federali) delle regole economiche e finanziarie, fatalmente ignorate dai più. Di qui il suo auspicio: “sostituire un sistema basato sulle regole con un altro sistema, basato su istituzioni più forti”.
Le istituzioni più forti e il circolo vizioso di Draghi
In apparenza l’auspicio echeggia il ragionamento di Kaldor. In realtà non lo echeggia affatto. Per il presidente del Bce, le regole non hanno provocato alcun “crollo dell’intero sistema”, il giudizio su di esse resta altamente positivo, e Draghi conclude dicendo che se si vuole un’unione più politica, “dobbiamo in primo luogo rispettare le regole attualmente vigenti”. Ecco il circolo vizioso, che perpetua lo status quo. I.e istituzioni “più forti” sembrano auspicate solo in quanto servirebbero a legittimare e glorificare regole i cui effetti si sono già rivelati catastrofici: “Solo rispettando le regole – così Draghi- possiamo costruire quella fiducia reciproca sulla quale istituzioni future possono essere erette”. Che tutto questo sia non tanto un’illusione quanto un’impostura lo stiamo constatando nei rapporti tra Grecia ed Europa.
Barbara Spinelli Il Fatto quotidiano 9 6 2015
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