Nei giorni delle banche chiuse e delle dirette tv dalla disperazione, dei vertici d’emergenza e delle dispute accademiche sul grado di sovranità, un ventinovenne britannico di nome Thom Feeney ha avviato una campagna di crowdfunding — una raccolta di denaro via Internet — «a sostegno del popolo greco». In poche ore, sono arrivate sulla piattaforma digitale di Indiegogo migliaia di donazioni da 170 Paesi per un totale di due milioni di euro. I più generosi sono stati i tedeschi, poi gli inglesi e gli austriaci. Una grande piazza virtuale ha così accompagnato le piazze di Atene, percorse da tanti stranieri — quasi tutti europei — determinati a mostrare solidarietà durante quello che non viene vissuto come un dramma chiuso nei confini nazionali.
Ora dimentichiamo gli schieramenti per il Sì o per il No. Sospendiamo anche l’analisi delle colpe gravi e degli errori tattici. E chiediamoci: come è possibile che questo movimento verso i greci stia avvenendo proprio mentre la Grecia rischia di essere il primo Paese che viene accompagnato — o si fa accompagnare — alla porta dell’Unione, interrompendo un processo di inclusioni che continua dalla seconda metà del Novecento? Le varie forme di partecipazione — i viaggi del turismo politico, le donazioni d’istinto, le conversazioni ossessive sul caso greco & noi — sono la prova che un senso di appartenenza (non solo obbligato) è cresciuto tra quelli che ormai fatichiamo a chiamare «i popoli», categoria abbandonata in mezzo ai rovi del populismo, appunto, in nome di vincoli superiori. Appartenenza a un continente, a una democrazia, a una cultura.
Quando nel 1981 la stessa Grecia entrò nella casa comunitaria, l’Europa rappresentava un sogno di stabilità, di diritti, di non paura dopo gli anni della guerra civile e della dittatura: non era solo questione di economie, era un modello al quale guardare per un futuro di prosperità che avrebbe unito Sud e Nord, Est e Ovest in una sintesi innovativa. A un certo punto, la costruzione di un senso europeo e il racconto di quella costruzione si sono interrotti. E allora — mentre studiamo soluzioni urgenti al default greco, mentre riflettiamo sulla necessaria convergenza strutturale delle economie in zona euro — dovremmo anche chiederci perché non esista oggi un’ intellighenzia capace di una visione che non sia solo vincolo e costrizione, capace di contaminare positivamente l’immaginazione degli europei e legittimare dal basso il consenso. Oltre i politici, accanto agli economisti, è difficile rintracciare un fronte robusto e attivo di pensatori che sappiano rovesciare il contagio del risentimento.E rianimare un sentimento europeista.
Quando evochiamo le ragioni del nostro stare e restare insieme, ricorriamo fatalmente al ricordo di padri della patria straordinari quanto lontani, tiriamo fuori vecchie fotografie di leader che si tenevano per mano davanti a un’idea coraggiosa e che sono quasi tutti scomparsi. In tempi di crescita abbiamo commesso l’errore strategico di non coltivare quella cultura e quei progetti che ci avrebbero avvicinato, non abbiamo dato struttura a uno slancio che sembrava scontato e per sempre: l’intuizione di un continente forte della sua varietà e sensibile alle singole storie se ne è stata a galleggiare silenziosa tra gli Stati.
Adesso che i tempi sono cambiati e ci troviamo prigionieri di particolarismi trascinati dalla crisi, ridare fiato a quell’ambizione unitaria è molto complicato, a tratti pare impossibile. Ma il problema si è posto e sta in mezzo a tutti. Non è solo Grexit, non sarà neppure solo Brexit. E non basteranno gli appelli alla generazione Erasmus che ha condiviso studi, appartamenti e amicizie oltre confine. Al contrario, dovremmo meditare sulla coincidenza tra alcune forme radicali di euroscetticismo e i più giovani, che magari hanno sì in testa altre terre ma raramente la loro.
La verità è che la fiducia dei cittadini europei va riconquistata, anzi: va «acquistata» con misure che incidano là dove maggiore è l’inquietudine. In attesa di riaprire i Trattati, quando la temperatura continentale sarà scesa, a fare la differenza potrebbero essere interventi coraggiosi sulle migrazioni o sul lavoro. Uno schema Ue di sussidi di disoccupazione, per esempio, che mostri dove sta la solidarietà — non solo ideale. Troppo a lungo gli investimenti, i finanziamenti, i piani europei sono rimasti opachi: non sono stati raccontati e spiegati, liberando il campo alle invettive e alle proteste. In un’epoca di grandi narrazioni su tutto, la comunicazione da Bruxelles dovrà contribuire a quel rovesciamento del contagio negativo: servono parole sorprendenti, oltre le formule fredde e le burocrazie di comodo che hanno fatto battere in grigio il cuore comune. Feeney, l’uomo del crowdfunding , ha calcolato che se ogni cittadino dell’Unione depositasse 3,19 euro nel salvadanaio digitale si arriverebbe a 1 miliardo e 600 milioni, quanto Atene deve al Fmi. In fondo è poco più di quel 3,14 — il misterioso Pi greco — che serve a misurare il cerchio: la figura geometrica simbolo di unione e inclusione .
Barbara Stefanelli Corriere 8.7.15
L’ eresia di Syriza può salvare l’Europa della solidarietà egualitaria
LA VITTORIA del “no” al referendum greco, netta oltre ogni aspettativa, è un voto storico, espresso in una situazione disperata. In passato ho spesso citato la barzelletta che circolava negli ultimi dieci anni di vita dell’Unione Sovietica e che aveva come protagonista Rabinovitch, un ebreo intenzionato a emigrare. Il funzionario dell’ufficio emigrazione gliene chiede il motivo e Rabinovitch risponde: «I motivi sono due. Il primo è che ho paura che in Unione Sovietica i comunisti perdano il potere e che il nuovo governo incolpi noi ebrei di tutti i crimini dei comunisti — che si torni ai pogrom antisemiti…». «Ma è assurdo», lo interrompe il funzionario, «in Unione Sovietica non può cambiare nulla, il potere dei comunisti durerà in eterno!». «Beh» risponde calmo Rabinovitch, «quello è il secondo motivo ». Mi hanno detto che ora ad Atene circola una nuova versione della storiella: un giovane greco va al consolato australiano di Atene per chiedere il visto di lavoro. «Perché vuole lasciare la Grecia?» gli chiede il funzionario. «Per due motivi», risponde il giovane. «Il primo è che ho paura che la Grecia esca dall’Ue, della nuova povertà e del caos che ne verranno…». «Ma è assurdo », lo interrompe il funzionario, «la Grecia rimarrà nella Ue e si assoggetterà alla disciplina finanziaria!». «“Beh», risponde calmo il greco, «quello è il secondo motivo… ». Vuol forse dire che, parafrasando Stalin, entrambe le scelte sono le peggiori? È ora di andare oltre i dibattiti sterili sui possibili errori di comportamento e valutazione da parte del governo greco. Le poste in gioco ormai sono troppo alte.
Il fatto che negli attuali negoziati tra la Grecia e gli amministratori Ue si arrivi sempre a un passo da un accordo senza raggiungerlo è in sè profondamente sintomatico, poiché in realtà non si tratta di vere e proprie questioni finanziarie — a questo livello, la differenza è minima. La Ue di solito accusa i greci di esprimersi solo in termini generali, facendo promesse vaghe senza entrare nello specifico, mentre la Grecia accusa la Ue di voler controllare anche i minimi dettagli e di imporre al nuovo governo greco condizioni più dure rispetto al passato. Ma dietro queste recriminazioni aleggia un altro conflitto, più profondo. Tsipras ha dichiarato recentemente che se avesse avuto occasione di andare a cena da solo con Angela Merkel avrebbero trovato una soluzione in due ore. La sua tesi è che lui e la Merkel, due politici, avrebbero affrontato il dissidio come contrasto politico, a differenza degli amministratori tecnocrati, come il capo dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem. Se c’è un cattivo per eccellenza in tutta questa storia è Dijsselbloem: «Se pongo le questioni sul piano ideologico non risolvo nulla» è il suo motto.
Questo ci porta al nodo della questione: Tsipras si esprime come se i problemi fossero parte di un processo politico aperto, in cui si devono prendere decisioni in fin dei conti “ideologiche” (basate su preferenze normative) mentre i tecnocrati della Ue si esprimono come se tutto si riducesse a specifici regolamenti e nel momento in cui i greci rifiutano questo approccio e sollevano questioni più prettamente politiche, li si accusa di mentire, di evitare soluzioni concrete e così via. Non c’è dubbio che la verità qui sta dalla parte greca: rifiutare il “piano ideologico” come fa Dijsselbloem equivale alla più pura ideologia, significa spacciare per regolamenti elaborati da esperti decisioni che sono in realtà fondate su scelte politico-ideologiche.
La lotta in atto è la lotta per la Leitkultur economica e politica in Europa. Le potenze della Ue appoggiano lo status quo tecnocratico che da decenni mantiene l’Europa in uno stato d’inerzia. Nel suo Notes Towards a Definition of Culture (Note sulla definizione di cultura) il grande conservatore T.S.Eliot osserva che in alcuni momenti l’unica possibile scelta è tra l’eresia e il non credere, per tener viva una religione bisogna cioè creare nel suo corpo principale una frattura settaria. È questa la nostra posizione oggi riguardo all’Europa: solo una nuova “eresia” (rappresentata in questo momento da Syriza) può salvare quello che vale la pena di salvare dei valori europei: la democrazia, la fiducia nelle persone, la solidarietà egualitaria… L’Europa che vincerà se Syriza verrà messa fuori gioco sarà un’”Europa dai valori asiatici” (che ovviamente nulla ha a che fare con l’Asia, ma molto con la tendenza netta e attuale del capitalismo contemporaneo a sospendere la democrazia).
Non è solo che il destino della Grecia è in mano all’Europa. Noi dell’Europa occidentale amiamo guardare alla Grecia da osservatori distaccati, che seguono con compassione e simpatia il dramma della nazione impoverita. Questa posizione di comodo poggia su una pericolosa illusione — ciò che accade in Grecia in questi ultimi giorni ci riguarda tutti, è in gioco il futuro dell’Europa. Il problema è che la politica dei tecnocrati si basa su una finzione, quella di estendere i termini di restituzione del debito dando a intendere che verrà ripagato in toto. Perché ci si ostina in questa finzione? Non è che renda l’estensione del debito più accettabile agli elettori tedeschi; e non è neppure che la cancellazione del debito greco possa innescare pretese analoghe da parte di Portogallo, Irlanda, Spagna…
È che ai vertici in realtà non si vuole che il debito venga del tutto ripagato. I finanziatori accusano i paesi indebitati di non mostrare sufficiente senso di colpa, li accusano di sentirsi innocenti. Le loro pressioni corrispondono perfettamente a quello che gli psicoanalisti definiscono come superio: il paradosso del superio sta nel fatto che, Freud ci insegna, più obbediamo alle sue richieste più ci sentiamo in colpa. Immaginate un perfido insegnante che assegna ai suoi alunni compiti impossibili e ghigna con sadismo vedendoli in ansia e in preda al panico. Il vero obiettivo di prestare denaro ai debitori non è ottenere il rimborso del debito lucrando, ma perpetuare il debito a tempo indefinito, tenendo il debitore in perenne dipendenza e subordinazione… questo per la maggior parte dei debitori, perché ne esistono varie tipologie.
Non solo la Grecia, ma anche gli Usa non saranno in grado neppure in teoria di ripagare il loro debito, come ormai è di pubblico dominio. Esistono quindi debitori (le grandi banche) in grado di ricattare i creditori perché non possono permettersi di farle fallire, debitori che possono controllare le condizioni di pagamento del loro debito (il governo Usa) e, infine, debitori che possono essere maltrattati e umiliati (Grecia). I finanziatori fondamentalmente accusano il governo Syriza di non mostrare sufficiente senso di colpa, lo accusano di sentirsi innocente. È questo che disturba l’establishment Ue: il governo Syriza riconosce il debito, ma senza colpa. Si sbarazza della pressione del superio.
Ma ripetere all’infinito che la politica di Syriza rientra nei modesti confini della vecchia buona socialdemocrazia per convincere gli eurocrati che non è pericolosa e spingerli a concedere gli aiuti, in qualche misura non riesce nell’intento. Syriza è in realtà pericolosa, pone effettivamente una minaccia all’attuale orientamento della Ue — il capitalismo globale odierno non può permettersi un ritorno al vecchio stato sociale. Quindi c’è dell’ipocrisia nelle rassicurazioni circa la sobrietà delle istanze di Syriza: in realtà il suo obiettivo è impossibile da realizzarsi entro le coordinate del sistema globale esistente. Servirà una seria scelta strategica: e se fosse giunto il momento di gettare la maschera della sobrietà e di chiedere invece apertamente il cambiamento ben più radicale necessario per ottenere un progresso, seppur modesto? Forse il referendum sarà il primo passo in questa direzione.
Slavoj Zizek Repubblica 9.7.15
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