Nel 55 a.C., a circa un decennio dalle idi di marzo del 44 a.C., ad Anzio, Cicerone scriveva una lettera allo storico Lucceio, vecchio amico e suo sodale nello scontro con Catilina, esortandolo alla redazione di un’opera dedicata alle vicende pubbliche degli anni 64-57 a.C. Lucceio, “esperto nel campo dei rivolgimenti civili”avrebbe dato conto con competenza dei gravi turbamenti che afflissero la vita politica e istituzionale (Cicerone, Lettere ai familiari 5.12).
Con un’altra lettera coeva, invitava il proconsole Publio Lentulo Spinther a riflettere sui mutamenti costituzionali intervenuti (Cicerone, Lettere ai familiari 1.8). La scena politica romana dell’ultimo secolo repubblicano appariva segnata da continue riforme costituzionali e si dibatteva aspramente. E, a proposito di riforme costituzionali, Cicerone non vedeva nulla di male nell’immaginarne ed elaborarne di nuove, era essenziale però guardarne la sostanza, trattandosi di materia delicata.
L’oratore l’affrontò distesamente nel suo trattato politico, il De re publica, riprendendo il motivo della costituzione mista, già descritto da Polibio, fondato sul contemperamento dei poteri degli organi costituzionali, evitando di sbilanciare a favore di uno l’equilibrio costituzionale complessivo e nell’interesse generale:
“giudico la migliore costituzione di uno Stato quella mista che risulta dall’equilibrato temperamento delle tre forme di governo: monarchia, aristocrazia, democrazia“ (Cicerone, Sullo Stato 2.23.41).
Quella repubblica finì, travolta dai signori della guerra e da uomini forti convinti di traghettarla al sicuro fidando su se stessi. Da quelle fasi prese avvio un regime autoritario. Senza i classici non si va lontano.
Orazio Licandro Il Fatto 5/9/2016
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