Dovremmo essere i soli a pagarne le conseguenze ma non sarà così. Ci aspettano anni di barbarie
Caro mondo, ti chiedo scusa. Mi dispiace per quello che è accaduto e per quello che sta per accadere. Non ti meriti la sfrenata barbarie degli anni a venire. Se qualcuno se la è meritata, siamo noi. Siamo stati noi a combinare questo pasticcio e dovremmo essere i soli a pagarne le conseguenze. Ma nella notte elettorale, insieme a tante altre cose, anche la parola «dovremmo» ha perso senso.
Chiedo scusa perché l’America si è immersa talmente nei reality della tv e nei social media da rendere inevitabile il successo elettorale di uno dei protagonisti di maggior successo di quel mondo. Trump è abituato a competere per l’audience e i retweet, e per buona parte del decennio passato i suoi concorrenti maggiori sono stati i Kardashian, di certo avversari formidabili. Per emergere in una palude virtuale di narcisisti ha utilizzato la strategia dell’aggressività, della volgarità e della provocazione sfacciata, ed è stato premiato dalla memoria corta e dal deficit di attenzione degli americani.
(Visto che ho menzionato i Kardashian, vorrei essere il primo a fare l’endorsement di Kim per la presidenza. Con la sua ricchezza, le orde di seguaci e il suo impero di reality tv, con le sue chiacchiere sul sesso e lo sfoggio scaltro delle griffe, e con la sua carenza di esperienza politica, mi sembra perfetta come prima donna presidente del nostro Paese. E forse, intanto che si candiderà, tutto questo confuso sistema di collegi elettorali verrà fortunatamente superato e potremo eleggere il leader del mondo libero con un comodo e maneggevole sistema di «mi piace»).
Chiedo scusa per quello che la presidenza Trump significa per persone di colore, per i membri della comunità Lgbt, per i non cristiani, i laureati, i veterani e i coscritti, gli anziani, i malati e i bambini, l’ambiente e gli animali, i disabili, il sistema giudiziario e la stampa libera, i poco istruiti, i poveri e le donne, soprattutto le donne.
Chiedo scusa perché uno dei miei primi pensieri poco prima dell’annuncio del risultato elettorale è stato quello di essere contento di non avere figli. Chiedo scusa perché non me la sento più di combattere. Mi piacerebbe pensare che sia una straordinaria sfortuna, una sorta di anomalia, un tragico incidente. Ma non mi sento ingannato, mi sento semmai di aver sbagliato.
Quello in cui credevo è stato clamorosamente rifiutato, e dopo aver ripercorso la logica che ci ha condotti fin qui non ho altra scelta se non riconoscere la sconfitta. I valori di questo Paese non sono i miei. È una scoperta sconvolgente, ma il suo peso innegabile, la sacra forza della verità con cui si presenta me la fanno accettare senza discutere, senza amarezza e risentimento. Rimarrò a vivere in America, ma non facciamoci illusioni, vivrò in esilio.
Mi dispiace perché la vita sta per diventare molto, molto difficile, ma perlomeno l’arte diventerà più bella. Se ci sarà una luce a squarciare il buio che incombe imminente, sarà l’illuminazione dell’immaginazione. Sarà l’atto profondo di portare una testimonianza. I peggiori periodi della storia hanno di solito prodotto dipinti, poemi e canzoni che sono sopravvissuti alle lotte che li hanno generati.
Mi dispiace che la grande arte non basterà per tutti noi. Né basteranno la rabbia, la protesta, l’empatia, la passione e l’unità: saranno dei palliativi, ma non la cura. Perché? Perché non c’è una malattia. Trump non è qualcosa che dobbiamo espellere dal nostro sistema. Lui è il sistema, e la sua elezione è il primo passo verso l’eliminazione di quello che non serve al sistema: me, voi, noi. Siamo noi il cancro, siamo noi i terroristi, siamo noi quelli radicalizzati ed emarginati.
Se c’è un vantaggio è quello che la nostra morte sarà rapida. Abbiamo tratto consolazione dalla lotta che abbiamo condotto, e dalle non irrilevanti vittorie che abbiamo conseguito. Seguiamo l’esempio pieno di grazia di Hillary, e arrendiamoci con integrità, con coraggio, con l’indiscutibile consapevolezza che non avevamo nessuna possibilità di vincere. Issiamo la nostra bandiera messa al contrario.
Osserviamo bruciare le nostre città e scaldiamoci le mani sulle ceneri della Costituzione. Abbattiamo i nostri monumenti per fare spazio ad alberghi giganteschi. Postiamo qualunque cosa su Facebook e Twitter. Bombardiamo questi, quelli e quegli altri. Denunciamo per calunnia, danno e discriminazione. Rendiamo l’America di nuovo stupratrice.
Chiedo scusa se qualcosa di quello che ho detto vi suona offensivo. Ma mi dispiacerebbe ancora di più se non fosse così. Criticatemi. Licenziatemi. Prosciugate la mia palude narcisista e buttatemi fuori. Ma mettiamo in chiaro una cosa: nonostante tutto, io resto con lei. E per «lei» intendo ovviamente Kim Kardashian.
Bret Anthony Johnston, scrittore americano La Stampa 14.11.16
vedi: La lingua dell'odio
Guardare Trump in tv è un tuffo gelido nel passato