Seneca saluta il suo Lucilio

Ti mando la lettera che ho scritto a Marullo: ha perso un figlio ancora piccolo e, dicono, si comporta da debole: in essa non ho fatto come si fa di solito e non ho ritenuto di doverlo trattare con dolcezza: merita rimproveri più che conforto. Per un po’ bisogna essere accomodanti con chi è afflitto e mal sopporta una grave ferita: si sazi o almeno sfoghi il primo impeto di cordoglio: ma se uno sceglie di piangere deve essere rimproverato subito e imparare che anche le lacrime sono a un certo modo sconvenienti.

“Aspetti un conforto? Riceverai, invece, dei rimproveri. Ti comporti così da debole per la morte di un figlio; che faresti se avessi perso un amico? È morto un figlio di incerte speranze, ancora piccolo: il tempo perduto è poco. Noi cerchiamo motivi di dolore e vogliamo, anche a torto, lamentarci della sorte, come se non ci desse fondate ragioni di pianto; ma, per dio, mi sembravi abbastanza forte anche di fronte ai mali concreti, tanto più verso queste parvenze di mali di cui gli uomini si lagnano per abitudine. Se pure avessi perso un amico, che di tutte è la perdita più grave, dovresti cercare di gioire per averlo avuto, più che piangere per averlo perso.

Ma la maggior parte della gente non tiene conto dei beni ricevuti, delle gioie provate. Questo dolore ha un difetto tra gli altri: oltre che inutile, è ingrato. E dunque, aver avuto un amico simile è stato infruttuoso? Tanti anni, tanta comunione di vita, tanti studi fatti amichevolmente in comune, non sono serviti a niente? Insieme all’amico seppellisci l’amicizia? E perché ti duoli di averlo perso, se averlo avuto non ti serve a niente? Credimi, gran parte delle persone che abbiamo amato, anche se la morte li ha rapiti, ci rimane vicina; il passato ci appartiene e solo quello che è stato si trova al sicuro.

Non siamo riconoscenti per i beni ricevuti, perché speriamo nel futuro, quasi che il futuro, se pure arriva, non si trasformi velocemente in passato. Chi gioisce solo del presente limita a poco i vantaggi della vita: futuro e passato sono fonte di piacere, l’uno con l’attesa, l’altro con il ricordo, ma il primo è incerto e può anche non realizzarsi, il secondo non può non essere esistito. È da pazzi perdere il più sicuro dei beni! Sentiamoci soddisfatti delle gioie già gustate, purché il nostro animo non se le sia lasciate sfuggire tutte, come un vaso rotto perde il contenuto.

Sono innumerevoli gli esempi di uomini che hanno celebrato senza piangere i funerali di figli adolescenti, che dal rogo sono tornati in senato o ai pubblici affari e si sono occupati subito d’altro. E a ragione: prima di tutto, è inutile dolersi se il dolore non ti serve a niente; e poi è ingiusto lagnarsi di quanto ora succede a uno: è una sorte riservata a tutti; inoltre, querimonie e rimpianti sono da insensati: la distanza fra la persona perduta e chi la rimpiange è breve. Dobbiamo, dunque, rassegnarci, perché seguiamo a ruota chi abbiamo perduto.

Considera come il tempo passa velocemente e come è breve questo terreno cammino che percorriamo in gran fretta; osserva questa schiera di uomini che tendono alla stessa meta, a brevissima distanza l’uno dall’altro, anche quando gli intervalli a noi sembrano lunghissimi: quello che tu credi scomparso ti ha solo preceduto. Ora dovendo percorrere anche tu quella via, vi può essere una stoltezza maggiore che piangere colui che è andato avanti? Può uno lagnarsi di un’avvenimento se sapeva che doveva avvenire? Se poi non sapeva che l’uomo è destinato a morire, ha voluto ingannare se stesso.

Chi può dolersi di un fatto quando sa che è inevitabile. Lamentarsi per la morte di uno significa lamentarsi che quello sia stato un uomo. Siamo tutti soggetti a uno stesso destino: chi nasce deve morire. Anche se in tempi diversi la conclusione è sempre la stessa. Il tempo che passa fra il primo e l’ultimo giorno non è determinato e può variare: inrelazione agli affanni, è lungo anche quello di un bimbo; se si guarda la velocità degli anni, è breve anche quello di che vive fino alla vecchiaia.

Non v’è niente che non sia labile, fallace e mutevole nel tempo: ogni cosa è instabile e al primo colpo di fortuna si volge al suo contrario, e in tanto agitarsi di umane vicende, niente è certo, tranne la morte. Tuttavia tutti si lagnano di questa, che è la sola a non ingannare nessuno.

Lucio Anneo Seneca (4 a.C.-65 d.C.), filosofo,  da  Epistolae morales ad Lucilium, 99



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