Intervista a Zygmunt Bauman (1925- 2017) sociologo e filosofo polacco

«Lo stato sociale è finito, è ora di costruire il “Pianeta Sociale”». Solo così, spiega Zygmunt Baumann, si potrà uscire dalla crisi globale che il mon­do contemporaneo sta vivendo. La politica deve avere la forza di reinventarsi su scala planetaria per affrontare l’emergenza am­bientale o il divario crescente tra ricchi e poveri. Altrimenti è con­dannata alla marginalità in una dimensione locale, con stru­menti obsoleti adatti a un mon­do che non esiste più. L’invento­re della “società liquida” non crede in una capacità di auto-riforma della politica, «meglio costruire un’opinione pubblica globale e affidarsi a organizza­zioni cosmopolite, extraterrito­riali e non governative».

I nostri politici ce la faranno a cambiare paradigma, passan­do dal locale al globale?

«Io non conterei molto sui go­verni – di nessun paese, piccolo o grande che sia – e ancor meno sui loro tentativi di collaborazio­ne, che finiscono regolarmente in una poesia di nobili intenzio­ni piuttosto che in una prosa di concreta realtà. I poteri che de­cidono sulla qualità della vita umana e sul futuro del pianeta sono oggi globali e dunque, dal punto di vista dei governi, sono extraterritoriali ed esenti dalla loro sovranità locale. Finché non innalziamo la politica ai livelli ormai raggiunti dal potere, le probabilità di arrestare gli svi­luppi catastrofici cui stiamo conducendo la nostra vita sul pianeta sono, quantomeno, scarse».

Dunque, di quali strumenti alternativi dovrebbe dotarsi la politica per affrontare le grandi emergenze del nuovo mondo globale?

«L’obiettivo di arrestare le ineguaglianze globali che ten­dono a divenire rapidamente più profonde non compare tra le priorità delle agende politiche degli Stati-nazione più potenti, nonostante le tante promesse fatte al riguardo. Contempora­neamente, mancano ancora un’ “agenda politica planetaria” e delle istituzioni politiche globali efficaci e dotate di risorse che gli permettano di perseguire si­mili obiettivi rendendoli operativi. Le prerogative territoriali degli Stati-nazione ostacolano la creazione di tale agenda e di tali istituzioni e rendono ancora più difficile il tentativo di mitiga­re il processo di polarizzazione».

Gli Stati da soli non possono farcela. I singoli cittadini hanno qualche possibilità in più di mettere mano ai disagi che av­vertono, per organizzare un’a­zione collettiva?

«Qui interviene quel fattore che è stato ampiamente descrit­to con il termine “individualiz­zazione“. Con il progressivo ab­bassarsi della condizione di di­fesa mantenuta contro le paure esistenziali, e con il venir meno di accordi per l’autodifesa co­mune, come per esempio i sin­dacati o altri strumenti di con­trattazione collettiva, depoten­ziati della competizione impo­sta dal mercato, spetta ai singoli trovare e mettere in pratica solu­zioni individuali a problemi prodotti dalla società nel suo complesso. Ma fare tutto questo da soli e con strumenti per forza limitati risulta palesemente ina­deguato al compito prefisso».

Anche il climate change è tra le grandi paure e insicurezze che l’uomo occidentale deve fronteggiare.

«L’insicurezza deriva dal di­vario tra la nostra generale inter­dipendenza planetaria e la natu­ra meramente locale, a portata di mano, dei nostri strumenti di azione concertata e di controllo. I problemi più terribili e spaven­tosi che ci tormentano e che ci spingono a provare una sensa­zione di insicurezza e incertezza riguardo a tutto ciò che ci cir­conda hanno origine nello spa­zio globale che è al di là della portata di qualsiasi istituzione poli­tica ora esistente; tuttavia questi problemi sono scaricati sulle en­tità locali – città, province e Stati – dove si pretende che vengano risolti con quei mezzi disponibi­li a livello locale: un compito praticamente impossibile».

Eppure in molti sostengono che alcune questioni relative all’inquinamento, alla produzio­ne d’energia, ai rifiuti, possono essere affrontate a livello «mi­cro», di città, di governi locali.

«L’inquinamento atmosferi­co e la mancanza di acqua pota­bile sono questioni che traggo­no origine nello spazio globale, ma sono poi le istituzioni locali a doverle gestire. Lo stesso princi­pio si applica al problema delle migrazioni, del traffico di droga e armi, del terrorismo, della cri­minalità organizzata, dell’in­controllata mobilità dei capitali, dell’instabilità e della flessibilità del mercato del lavoro, della cre­scita dei prezzi dei beni di con­sumo e così via. La sfera politica locale è sovraccarica di compiti e non è abbastanza forte o abba­stanza dotata di risorse per svol­gerli. Solo istituzioni politiche e giuridiche internazionali – fino­ra assenti – potrebbero tenere a bada le forze planetarie attual­mente sregolate e raggiungere le radici dell’insicurezza globale».

E un governo planetario che salverà il mondo?

«Allo stadio di sviluppo a cui è ormai giunta la globalizzazione dei capitali e dei beni di consu­mo, non esiste nessun governo che possa permettersi, singolar­mente o di concerto con altri, di pareggiare i conti – e, senza che si pareggino i conti, è impensabile che si possano effettivamente mettere in atto le misure tipiche dello Stato sociale, volte a ridur­re alla radice la povertà e a pre­venire che l’ineguaglianza con­tinui a crescere a piede libero. E’ altrettanto difficile immaginare governi capaci di imporre limiti sui consumi e aumentare le tas­se locali ai livelli necessari per­ché lo Stato possa continuare a erogare servizi sociali, con la stessa intensità o con maggior vigore».

La globalizzazione cancella anche lo Stato sociale. Profes­sor Bauman, non lascia speran­za per un briciolo di giustizia e di eguaglianza nel mondo del XXI secolo?

«Non esiste una maniera ade­guata attraverso la quale uno so­lo o più Stati territoriali insieme possano tirarsi fuori dalla logica di interdipendenza dell’uma­nità. Lo Stato sociale non costi­tuisce più una valida alternativa; soltanto un “Pianeta sociale” potrebbe recuperare quelle fun­zioni che, non molto tempo fa, lo Stato cercava di svolgere, con fortune alterne. Credo che ciò che può essere in grado di veico­larci verso questo immaginario “Pianeta sociale” non siano gli Stati territoriali e sovrani, ma piuttosto le organizzazioni e le associazioni extra-territoriali, cosmopolite e non-governative, tali da raggiungere in maniera diretta chi si trova in una condi­zione di bisogno, sorvolando le competenze dei governi locali e sovrani e impedendogli di inter­ferire».

Alessandro Lanni         Reset Nov 2008

 

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