Un bel giorno, in un paesino della Sicilia, capita che il sindaco ridens e corrotto Patanè venga portato via dalla Finanza per una sfilza di reati contro la Pubblica amministrazione (ma anche per abigeato) alla vigilia delle elezioni. Così vince l’altro candidato, dato per sconfitto: quello onesto, che predica legalità e – incredibile a dirsi – la pratica pure: da cittadino e da sindaco. Sulle prime, i cittadini che avevano sempre votato dall’altra parte (“Vota Patanè senza chiederti perché”), saltano sul carro del vincitore (“Io non salgo sul carro: io lo guido”), inneggiando al “cambiamento”, all’“onestà”, alle “regole”.

Poi le regole, queste sconosciute, cominciano a sperimentarle sulla propria pelle: basta parcheggi in quadrupla fila o nelle zone riservate ai disabili (ovviamente falsi), basta evasione fiscale (anche per il bed&breakfast del parroco), basta voti scambiati per posti di lavoro o buste della spesa o concessioni edilizie, basta negozi e bancarelle senza licenza, basta rifiuti gettati in strada, basta favori ai parenti del sindaco, basta assenteismo negli uffici pubblici (intere legioni di forestali imboscati spediti a lavorare per la prima volta in vita loro), basta fabbriche inquinanti (a costo di perdere il lavoro), basta villette abusive sul mare.

In poco tempo il vento gira e, da popolarissimo e osannatissimo, il sindaco onesto diventa il nemico pubblico numero uno: “Ma questa onestà, a noi, quanto ci viene a costare?”. Quando i carabinieri arrestano un ristoratore col locale abusivo sulla spiaggia, quello urla alla moglie: “Chiama i carabinieri!”.

I vigili urbani, mai visti prima per le strade e scambiati per marziani (quando un carro attrezzi rimuove le auto in divieto, c’è chi pensa a un’astronave), si vergognano di multare i contravventori e chiedono scusa, per poi mettersi alla guida della rivolta contro il sindaco: “È colpa dei parenti, ci dovevano avvertire che quello era onesto veramente!”. “Questo virus dell’onestà va fermato prima che si espanda in tutta Italia”, dice un sinistro “uomo dello Stato” sceso da Roma per aizzare la gente, pappa e ciccia col piccolo establishment del paese: il parroco, il boss, i funzionari comunali.

Fallite le minacce mafiose per far dimettere il sindaco, si cerca uno scheletro nel suo armadio per screditarlo o ricattarlo: invano. E allora, siccome le prove a suo carico non si trovano, si provvede a fabbricarle. Il film L’ora legale di Ficarra e Picone, che ha sbancato i botteghini nel weekend, è tutto qui: divertente, paradossale, satirico, amaro, istruttivo. Si ride molto e si pensa anche di più.

In scala, è il miglior modo per spiegare perché 25 anni fa Mani Pulite partì col vento in poppa e poi, nel giro di due anni, divenne così impopolare da innescare il riflusso che portò alla vittoria di Berlusconi, votato dagli stessi che fino a pochi mesi prima inneggiavano a Di Pietro e a tutto il pool di Milano.

Cos’era accaduto? Che dai piani alti della politica, dell’impresa e della finanza, i pm abbassavano il tiro sull’illegalità diffusa, spicciola, quotidiana che accomuna non una ristretta élite di ladroni, ma un vastissimo sottobosco di ladruncoli e furbastri.

La svolta fu segnata da due indagini: quella sulle mazzette alla Guardia di Finanza, pagate non solo dai grandi imprenditori ai generali, ma anche dai medi e piccoli evasori e abusivi ai marescialli; e quella sui sottufficiali del distretto militare che esentavano i raccomandati dalla naja. Fu allora che si comprese che ce n’era per tutti, anzi non ce n’era più per nessuno: meglio revocare il mandato a quei pm che si stavano allargando troppo e chissà chi si credevano di essere

Perché va bene la legalità, ma senza esagerare. E, possibilmente, in casa d’altri. Il bello de L’ora legale è proprio questo: è un film semplice, ma per nulla facile. Non liscia il pelo agli spettatori con tirate moralistiche e autoconsolatorie sui potenti cattivi: fa il contropelo a tutti, in alto e in basso, nella migliore tradizione della commedia all’italiana (impossibile non pensare a Il vigile di Zampa, con Sordi e De Sica). Chi lo vede non può non riconoscersi almeno un po’ in uno dei personaggi e non mettersi in discussione. Perciò il boom del film è un piccolo grande fatto politico.

L’altra sera, fuori da un multisala torinese, una signora commentava con l’amica: “Sembra la storia di Virginia Raggi a Roma. Prima la votano in massa perché non ruba e non vuole sprecare soldi con le Olimpiadi; poi, quando mantiene la promessa e dice no alla candidatura olimpica, le saltano tutti addosso. E quelli di prima, con gli armadi pieni di scheletri, le tasche piene di soldi e gli occhi pieni di travi, cominciano a cercarle qualche pagliuzza. E, se non la trovano, se la inventano per coprirla di denunce, farla indagare e poter dire che è come gli altri”.

Ecco: se c’è ancora qualche politico o analista che vuole capire l’Italia del 2017 al di là degli slogan e degli anatemi sul populismo, sul giustizialismo, sul grillismo, corra a vedere L’ora legale, guardi le reazioni del pubblico e ascolti i commenti all’uscita.

Scoprirà tanti cittadini, perlopiù giovani, che vogliono cambiare le cose. Meno forsennati rispetto a 25 anni fa, e anche a 10 (il 2007, anno de La Casta di Stella & Rizzo, e del primo VDay di Grillo). Più disincantati per le troppe illusioni divenute disillusioni. Meno disposti a fidarsi di qualcuno per delegargli in bianco il proprio futuro. Ma forse più vogliosi di fare qualcosa in prima persona, da protagonisti.

Anche a costo di pagare un prezzo. “Cari concittadini che pretendete il cambiamento, voi siete disposti a cambiare?”, domanda il sindaco onesto alla folla che lo contesta. Molti, in sala, rispondono sì. Ma, quando escono dal cinema, con chi ne parlano?

Marco Travaglio      Il Fatto  24/1/2017

 

vedi:  Il direttore del processo di piazza

Un sistema di illegalità diffusa

Elogio del moralismo


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