«Solo chi nutre la vera speranza osa affrontare l’abisso cui ci stiamo avvicinando. “Speranza senza ottimismo” è oggi la formula dell’autentica religione, quella che più si adatta ai nostri tempi oscuri.» – Slavoj Žižek (1949), filosofo sloveno
«Si può sperare senza essere ottimisti? Affrontare con coraggio le minacce e gli orrori del mondo senza illudersi che tutto andrà sempre bene? Sì, si può e si deve. Se esiste salvezza, verrà da una nuova e più profonda speranza, che possiamo imparare.» Terry Eagleton (1943), critico letterario inglese
Terry Eagleton in questo testo presenta una via alla speranza razionale e materiale, come impulso che contribuisce alla realizzazione dei nostri progetti e quindi alla nostra felicità: la speranza – che richiede, come nella tradizione cristiana delle virtù teologali, un grande impegno e una grande determinazione, e non è un sentimento passivo dunque ma fortemente attivo – è il carburante emotivo-volontario senza il quale realizzare i nostri desideri, i nostri progetti, i nostri sogni diventa impossibile.
«Credo di non essere la persona più adatta a scrivere un libro sulla speranza: per me, il proverbiale bicchiere non solo è mezzo vuoto, ma con buona certezza contiene un liquido disgustoso e potenzialmente letale. La filosofia di alcuni è ‘mangia, bevi, sii contento, perché domani si muore’, quella di altri, a me senza dubbio più congeniali, è ‘domani si muore’». Eppure, sostiene il grande critico inglese Terry Eagleton, può davvero sperare proprio chi non è ottimista. L’autentica speranza non è allegria, non è idealismo: essa nasce da un coraggioso confronto con le difficoltà della vita, con le tragedie della storia. Solo questo confronto può portare la salvezza. E la riflessione cristiana – cui è dedicata una parte importante di questo libro – è fra i capisaldi di questo pensiero. Anche Shakespeare lo è; e Benjamin, e naturalmente Marx. Erudito e colloquiale al contempo, Terry Eagleton offre in questo saggio un esempio fulgido di come si possa coniugare profondità filosofica, vastità d’interessi e capacità di coinvolgere il lettore in un corpo a corpo, duro e fecondo, con sé stesso e con le proprie più radicate convinzioni. Un libro di sterminata intelligenza, capace di informare e commuovere, di piantare il seme di una speranza – sofferta ma vibrante – nelle macerie della modernità. (IBS)
Il libro: Terry Eagleton, Speranza (senza ottimismo). Una guida filosofica, ed. Ponte alla Grazie 2017, € 16
Chi è ottimista fa male anche a te: digli di smettere subito
“Speranza” del filosofo Terry Eagleton: “Per me, il proverbiale bicchiere non solo è mezzo vuoto, ma con buona certezza contiene un liquido disgustoso e potenzialmente letale”
Esiste una specie più perniciosa di essere umano dell’ottimista? Costui è convinto che le cose andranno bene per il solo fatto che lui pensa che andranno bene. Inutile spiegargli i motivi per cui ci sono più probabilità che vadano male: l’ottimista, che è un allucinato della speranza, resisterà a ogni ragionamento che infici la sua convinzione. Si dirà: in fondo, l’ottimista non fa male a nessuno. Secondo autorevoli pensatori, le cose non stanno così.
“Essere ottimisti è da criminali”, disse Theodor W. Adorno alla radio tedesca nel 1968. Secondo lo studioso della Scuola di Francoforte, pensiero e ottimismo erano due cose inconciliabili e lo sarebbero state sempre di più col dominio della tecnologia e la decadenza della politica. Nietzsche disprezzava gli ottimisti, affetti da una “giovialità che paga il suo brio con l’inconsapevolezza dell’irreparabile”. Mentre per Gottfried Benn “Sperare significa: avere idee sbagliate sulla vita”.
Come facciamo oggi a dirci ottimisti? Se lo chiede il filosofo Terry Eagleton in Speranza (Ponte alle Grazie, traduz. Vincenzo Ostuni), che confessa: “Per me, il proverbiale bicchiere non solo è mezzo vuoto, ma con buona certezza contiene un liquido disgustoso e potenzialmente letale”.
L’ottimismo è totalitario: siamo circondati da spot, indifferentemente di prodotti industriali e di programmi politici, che inneggiano al pensiero positivo, in una gaiezza compulsiva che pervade la nostra vita. Se già il nazismo propagandava l’ottimismo e il fascismo esaltava l’operosa fiducia dell’individuo al punto da vietare la cronaca nera, “la politica ‘della fiducia’ più che ‘della realtà’ promossa dalla Casa Bianca ai tempi di George W. Bush condusse l’atteggiamento tipico degli americani fino al livello della demenza”.
Oggi, lo storytelling si è assunto il compito di mettere la politica (e i politici) dentro una storia emozionalmente sceneggiata, nella quale tutto va bene perché è atteso di andare bene. La positività e l’euforia porterebbero l’Occidente fuori dalle morte gore del presente. È una forma di messianesimo ingenuo, pubblicitario, pompato da banalità manipolatorie come “torniamo grandi” e “meno paura più speranza”.
È stato proprio l’ottimismo (quello che faceva contrarre debiti per comprare oggetti e case senza poterli rifondare) a produrre la crisi scoppiata nel 2008, dopo la quale è stato chiaro che la speranza senza ragioni e senza ricchezza era un’arma rivolta contro noi stessi.
Oggi impera non il pessimismo, che ci costringerebbe a interrogarci, ma un impasto di pensiero magico e passioni tristi. L’ottimismo ottuso perpetra le ingiustizie e occulta le contraddizioni della società. “L’ottimista professionista, l’ottimista patentato”, dice Eagleton, è in realtà un nichilista, perché non ha bisogno di sperare niente.
Quel che ci manca non è la speranza come atteggiamento, incapace di cambiare le cose di una virgola (e comunque su questo piano non possiamo competere con gli allucinati del jihad); ma una ragione nuova, e motivi razionali, a sostegno di una speranza autentica.
Daniela Ranieri Il Fatto 27 marzo 2017
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