La verità è dappertutto in fuga, sfrattata dalla post-verità (detta anche storytelling). Ma nella nostra martoriata penisola è in rotta perfino la voglia di conoscere la verità dei fatti. Ci vorrebbero schiere di antropologi per analizzare questa peste sociale, ma proviamo almeno ad abbozzare tre possibili ragioni: il pettegolezzo, la memoria corta, l’abitudine al servo encomio.

Per cominciare: si tende a parlare non dei problemi che ci affliggono, ma delle chiacchiere che li circondano, amicizie inconfessabili, incontri clandestini, smentite imbarazzanti, segreti traditi, accordi sotterranei. Una ragione c’è: attraverso il filtro del gossip anche il più pressante dei problemi si polverizza, diventa una nebbia lontana. Da un lato, chi ogni giorno richiama ostinatamente fatti, prove, indizi; dall’altro, chi sfacciatamente nega tutto, intrecciando versioni contrastanti, furbizie, allusioni a mezza bocca.

Ma in questo muro contro muro, come evitare che i dati di fatto e le vane vociferazioni sembrino avere egual peso? La pubblica opinione, sale della democrazia, resta disarmata, spinta a discutere non dei fatti ma degli schieramenti, delle appartenenze, del “chi sta con chi”. Di qui il frequente riflesso automatico di chi, colto con le mani nel sacco, si difende non opponendo fatti a fatti, ma dicendosi vittima di inveterate inimicizie.

Secondo meccanismo, la memoria corta. E qui basti un esempio, le scommesse sulla durata del governo e sulla data delle elezioni, fondate essenzialmente sulle frane e gli abissi che si aprono in zona Renzi nonché sulle intemperanze e i lanciafiamme dell’ex-leader, ma non sui temi più impellenti della politica: per non dir altro, la gigantesca evasione fiscale, la disoccupazione giovanile, l’impoverirsi di quelle che furono le classi medie. C

ade sempre più nel dimenticatoio anche quel colabrodo destinato al naufragio che sono le due divergenti leggi elettorali di Camera e Senato: entrambe di impianto residuale, dopo i tagli operati dalla Consulta. Sembra impossibile che il Parlamento sappia esprimere una legge elettorale decente, che non venga poi bocciata per manifesta incostituzionalità. Eppure, se e quando votare lo discutiamo pensando in primis a Renzi e alle disavventure del suo clan, senza nemmen sognare una legge elettorale che sia fatta per eleggere non i più graditi ai capipopolo, ma i migliori e i più competenti.

Infine, la conversione dal servo encomio al codardo oltraggio, nei confronti del medesimo ex-leader, che si è vista prima strisciare e poi esplodere a partire (guarda caso) dal pomeriggio del 5 dicembre. Al qual proposito, meglio lasciare la parola a chi ci guarda da lontano, anche se non ci vuol bene. L’ormai famoso documento JP Morgan che dettava ai Paesi “della periferia meridionale” (nominando espressamente l’Italia) l’impellente necessità di riforme costituzionali menzionò anche la necessità di battere il «consenso basato sul clientelismo politico». Questa fu l’unica fra le raccomandazioni da tanto pulpito ad essere ignorata dal governo Renzi, viceversa impegnatissimo a distribuire cariche e prebende sulla base di appartenenze tribali, ubbidienze, fedeltà, mappe del Granducato.

Su questo sfondo, il conformismo degli organi d’informazione e l’inclinazione a servire che è da secoli una delle costanti della storia nazionale (inclusi gli “intellettuali”) si travestono spesso da ottimismo: dare le buone notizie e tacere su quelle cattive vien ritenuta una forma di patriottismo.

Ecco perché nella Press Freedom Map elaborata da Freedom House e permanentemente esposta nel Newseum di Washington a un passo dalla Casa Bianca (dove, sia detto per inciso, le vetrine sono dell’italiana Goppion), il nostro è il solo Paese dell’Europa occidentale colorato in giallo, a indicare che i suoi organi d’informazione sono classificati come “parzialmente liberi”.

Come risulta dal sito relativo (https://en.m.wikipedia.org/wiki/Press_Freedom_Index), la classificazione si basa su parametri che riguardano il pluralismo dell’informazione, l’indipendenza dei media e la loro tendenza ad auto-censurarsi, le pressioni politiche a cui sono soggetti. Nella mappa, il verde (più o meno intenso) indica i Paesi (come Svezia, Canada o Australia) che godono di maggiore libertà di informazione; il rosso bolla quelli (come Russia, Cina, Messico) dove la libertà è fortemente limitata.

Il giallo segnala le zone del mondo che sono “a metà”; dove la libertà d’informazione ci sarebbe, ma per una serie di ragioni, dalle pressioni politiche all’autocensura alla sottomissione volontaria al potere, non viene pienamente esercitata. Ed è in questa compagnia che si trova l’Italia.

Nella classifica 2016 offerta dallo stesso sito, svettano i Paesi a massima libertà di opinione: la Finlandia e i Paesi scandinavi, ma anche Nuova Zelanda, Costa Rica e Svizzera, seguiti da Austria (11° in classifica), Germania (16°), Canada (18°), Spagna (34°), Stati Uniti (41°), Francia (45°). In fondo alla classifica, Eritrea (180°), Nord Corea (179°), Cina (176°), Turchia (151°). E l’Italia? È al 77° posto, subito prima di Benin e Guinea-Bissau ma dopo la Moldavia (76°); fra i Paesi dell’Europa occidentale solo l’Albania (82°) e la Grecia (89°) hanno una performance peggiore della nostra.

Non è un grandissimo blasone, per il Paese di Dante, di Machiavelli, di Gramsci. Ma aiuta a capire perché da noi trionfa la post-verità.

Salvatore Settis        Il Fatto   9 marzo 2017

 

vedi:  La guerra alla verità

L’abitudine al falso diventa «post verità»

Pensiero Urgente n.274)

Che cosa fare nel paese dei corrotti e conformisti

Lo storytelling e le balle seriali

Ora ridateci la verità

 


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