All’origine della vicenda c’è il rapporto degli americani con una materia difficilmente definibile, chiamata “denaro”. Denaro prima come mezzo che come fine, sovvertendo i principi dei progenitori emigranti. Laddove nella prudente visione di quei non-garantiti “risparmio” significava “sicurezza”, i quattrini americani di fine Novecento cambiano senso: sono lo strumento da utilizzare impetuosamente per accrescere il possesso e assicurarsi prospettive di soddisfazione.
Primi anni 2000. L’isteria da edonismo, trascina milioni di americani in un equivoco: il denaro non è più la rappresentazione del proprio grado di successo, ma diventa un passepartout accessibile a tutti. Come? Prelevandone quanto ne serve presso il deposito in servizio continuato chiamato “sistema bancario”. Dicendo “pagherò”, incoraggiati dalle stesse banche sulle main street. Che, grazie questa circolazione anti-virtuosa, prosperano. Perché a loro volta dispongono di tutto il denaro di cui hanno bisogno per elargire sconsiderati prestiti, dal momento che le banche centrali inondano il mercato di dollari a tassi d’interesse bassissimi.
Più dollari per tutti, ma anche meno rischi
Questa è la forma della bolla: la sensazione che tutti possano arricchirsi, tutto vada bene, perché si è finalmente attivato un sistema di godimento collettivo, che discende dai colossali enti della finanza nazionale, attraverso le banche, fino al singolo capofamiglia, anche quello con poca fortuna professionale. È l’America, bellezza. Soldi per chiunque, saziando il desiderio di “ownership”, di proprietà.
I soldi girano. E vanno investiti. Settore immobiliare, prima di tutto. Case. Sempre più grandi. Perché, spiegano i mediatori, il loro valore cresce su base esponenziale. E allora proprietà significa investimento, arricchimento prodotto semplicemente “facendo girare i soldi”, compro, vendo, ricompro. Le banche hanno i forzieri pieni e vogliono che il denaro frutti. A costo di metterlo nelle mani di chi non è affidabile nella restituzione. Perché c’è un fattore perverso, un’asticella del pericolo sociale che si alza, quando una politica come quella dei prestiti subprime (mutui concessi a tassi più alti di quelli di mercato a clienti che non offrono buone garanzie di restituzione) diviene moneta corrente, in un paese in corsa come l’America. Scommesse ad alto rischio. Un Paese disseminato di milioni di scommesse. Potenziali insolventi incoraggiati a riprovarci. Credito, credito, credito. Una colossale caccia ai fagiani. Col benestare dello Stato.
Dalle villette a Lehman Brothers
Negli anni Novanta il 25 percento degli americani si colloca nell’orbita dei subprime. Un esercito di mutuatari fluttuante nell’ebbrezza della bolla immobiliare, in attesa solo del plotone d’esecuzione. Quando quei mutui esosi cominciano a non essere ripagati, quando la maggioranza smette di lottare e sospende la restituzione, sono le proprietà immobiliari, milioni di meravigliose villette unifamiliari, a finire in pegno, deprimendo il mercato. La crisi apre le fauci e inghiotte tutto in un baleno, puntando poi dritto sui tenutari dei crediti cartolarizzati. Lehman Brothers, ad esempio. Che non erogava mutui immobiliari. Però comprava quelli emessi dalle società finanziarie, che così ottenevano nuovi liquidi, con cui fare nuovi prestiti.
La rapidità del disastro è impressionante: le carte di credito subprime accordate tra i sorrisi ai nuovi clienti, non servono nemmeno a comprare il pane. Lehman diventa storia, una portaerei in fumo in pochi mesi. È lo squarcio, la colossale falla nel modello capitalistico costruito come il più grossolano Ponzi-scheme: paga sempre l’ultimo, finchè una casella non s’ingorga e allora si attiva il meccanismo contrario, di recupero, che somiglia a una pestilenza o, come la chiamarono i grandi economisti, a una “catastrofe”. La Federal Reserve, la banca centrale americana, rialza i tassi, gli insolventi si moltiplicano, le agenzie di credito che hanno trasformato i mutui immobiliari in titoli falliscono, la Borsa sprofonda, i prezzi collassano, l’economia nazionale precipita.
Secondo il Dipartimento del Tesoro Usa, la crisi deflagrata nell’estate 2007 e culminata un anno più tardi, costa quasi 9 milioni di posti di lavoro e poco meno di 19.200 miliardi di ricchezza delle famiglie. Un trauma psicologico collettivo, destinato a durare nel tempo e a trasmettersi come fattore ereditario nel Dna americano.
Una forma di felicità chiamata finanza
La feroce lezione è che non esiste garanzia collettiva di felicità. Che la rincorsa, come fu per i padri e i padri dei padri, è individuale, regolata da norme austere e matematiche: si può avere ciò che riusciamo a raggiungere. Niente di più. Il resto è apparenza. Oltre quel limite c’è il rischio e la parola che terrorizza gli americani: rovina. La sconfitta. L’incoscienza di credere che il sistema nuovo della nazione nuova, potesse generare una “macchina della fortuna” per tutti, si tramuta in favola stupida, inganno grossolano prodotto dal cinismo di chi ha analizzato le viscere di questa società. Individuandone la debolezza: l’incapacità di considerare la vita come un’esperienza appagante a dispetto delle dimensioni. Think big. L’America ha creduto di poter liberamente pensare in grande: se c’era un “meglio” raggiungibile, un offrire di più a se stessi e alla propria famiglia, perché non farlo?
Adesso tutti sanno che la crisi può risvegliarsi, il crack può travolgerli, il Mostro mitologico – il Toro di Wall Street. Wall Street ha vinto titolò un’apocalittica copertina di Time che ricostruiva l’implosione di Lehman e lo scongiurato “contagio sistemico” dai costi elevatissimi, allorché l’amministrazione Bush fece sprofondare una banca salvando però un sistema, pagando coi soldi dei contribuenti il salatissimo conto della deregulation finanziaria.
L’America ha costruito la sua cultura sociale sul denaro e l’ha chiamata finanza: produrre felicità dall’essenza del denaro, e non dal tempo/lavoro necessario. Una procedura tossica. A cui ora si cerca di porre riparo con antidoti appropriati: nuove norme per le banche centrali, coordinamento globale, regolamentazione del prestito, soprattutto l’accresciuta attenzione degli americani alla pratica del comprare senza avere i quattrini per farlo, per assaporare il gusto del possesso. In ballo c’è il concetto che impregna questa cultura: easy money. Bisognerà aspettare la prossima bolla per capire se la lezione è servita. O se quei quattro spiccioli sul conto avranno ancora la capacità di apparire, con un giochetto di prestigio, una montagna di quattrini come quella dello zio Paperone.
Stefano Pistolini Il Fatto 14 agosto 2017
vedi: Gli errori delle élite sulla globalizzazione
Il finanzcapitalismo deve essere disarmato