Stati Uniti. Novant’anni fa l’esecuzione dei due anarchici immigrati dal nostro Paese: condannati non solo perché ritenuti sovversivi, ma anche per le loro origini. Oggi, nell’era di Trump, sono discriminati i nativi, gli ispanici e i musulmani
Il 23 agosto 1927, nel penitenziario di Charlestown a Boston, furono giustiziati gli anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Al termine di un contestatissimo iter giudiziario, il cui esito aveva suscitato proteste non solo negli Stati Uniti ma anche nel resto del mondo, i due erano stati ritenuti responsabili del duplice omicidio di un contabile e di una guardia giurata, avvenuto il 15 aprile 1920 durante una rapina.
Le prove a loro carico erano indiziarie e forse manipolate a loro danno, un reo confesso del doppio assassinio li aveva scagionati e il giudice che li aveva mandati sulla sedia elettrica non si era fatto scrupolo di definirli «bastardi». Però, nulla di tutto ciò era valso a ottenere una revisione del processo o un provvedimento di clemenza. Solo mezzo secolo più tardi, nel 1977, il governatore del Massachusetts Michael Dukakis avrebbe riabilitato la loro memoria, riconoscendo i pregiudizi che avevano determinato il verdetto di colpevolezza.
La cattura di Sacco e Vanzetti e la successiva condanna maturarono nell’ambito della Red Scare (la paura rossa), la capillare e draconiana campagna contro i sovversivi che le autorità americane scatenarono nel biennio 1919-1920, in risposta all’eco della rivoluzione bolscevica in Russia, per il timore che le forze della sinistra estremista conquistassero il potere anche negli Stati Uniti. In aggiunta a Sacco e Vanzetti, la «caccia alle streghe» del governo mieté ulteriori vittime. Oltre a migliaia di arresti e alla deportazione sbrigativa nei paesi d’origine per più di 500 immigrati radicali privi della cittadinanza americana, due giorni prima che fossero fermati Sacco e Vanzetti, il 3 maggio 1920, un terzo anarchico italiano, Andrea Salsedo, aveva perso la vita, precipitando dalla finestra di un commissariato, in circostanze mai chiarite, nel corso di un interrogatorio.
Come quattro milioni di altri italiani giunti negli Stati Uniti tra la fine dell’Ottocento e il primo dopoguerra, Sacco e Vanzetti immigrarono in America nel 1908 nella speranza di migliorare le proprie condizioni economiche e di condurre un’esistenza meno precaria di quella che avrebbero vissuto in patria. Sacco, insofferente della monarchia parlamentare sabauda, fu perfino attratto dalle istituzioni repubblicane statunitensi, alle quali all’inizio attribuì un maggiore rispetto dei diritti individuali e dell’eguaglianza tra le persone.
Ben presto, però, in entrambi subentrò la disillusione. Ai loro occhi, gli Stati Uniti non si rivelarono né la terra del benessere né la nazione della libertà. L’America si dimostrò, invece, il paese dove il capitalismo sfrenato provocava lo sfruttamento selvaggio e indiscriminato dei lavoratori. Questa consapevolezza indusse Sacco e Vanzetti a radicalizzare la loro posizione politica. Aderirono così alla corrente antiorganizzativa dell’anarchismo, che si rifaceva a Luigi Galleani, anch’egli destinato a essere espulso dagli Stati Uniti nel 1919, e alle sue teorie sulla legittimità del ricorso agli attentati politici per distruggere il capitalismo e abbattere lo Stato.
Dopo lo scoppio della prima guerra mondiale i due si trasferirono temporaneamente in Messico per sottrarsi alla coscrizione, rifiutandosi di fungere da carne da cannone in uno scontro che attribuivano alla mera rivalità tra paesi imperialistici. Al rientro negli Stati Uniti si ritrovarono invischiati nella repressione governativa che sfruttò l’incitamento di Galleani alla violenza come pretesto per sradicare un movimento quanto mai scomodo nella nazione trasformata dalla vittoria contro la Germania nella principale potenza capitalistica mondiale.
La fede anarchica e la renitenza alla leva resero Sacco e Vanzetti i bersagli ideali della crociata contro il radicalismo di sinistra. A segnare la loro sorte, però, non fu tanto l’ideologia politica quanto l’origine italiana. Nell’America postbellica era in gioco non solo il futuro del capitalismo, ma anche la natura della società statunitense. La ripresa dell’immigrazione alla fine del conflitto accrebbe la presenza di stranieri provenienti dall’Europa orientale e meridionale e accentuò la reazione xenofoba della popolazione di ascendenza anglosassone.
Gran parte dell’opinione pubblica riteneva che l’appartenenza agli Stati Uniti fosse una questione di sangue e non accettava i nuovi arrivati, ritenendoli individui etnicamente inferiori e inassimilabili perché le loro radici non affondavano nell’Europa settentrionale, a differenza dei discendenti dei colonizzatori dell’America del Nord e della maggioranza degli immigrati giunti fino agli anni Ottanta dell’Ottocento. In particolare, gli italiani erano accusati di essere incivili, sporchi, violenti, dediti al crimine e, in un’ipotetica gerarchia razziale, più simili e vicini ai neri che ai bianchi a causa del colore olivastro della pelle di molti meridionali e dei loro plurisecolari rapporti con i nordafricani. Non a caso, tra il 1886 e il 1910, almeno 34 immigrati italiani, in prevalenza siciliani, vennero linciati, cioè furono colpiti da quella forma di giustizia sommaria popolare che nel Sud razzista si accaniva sugli afroamericani.
In tale contesto, Sacco e Vanzetti divennero i capri espiatori della protesta nativista contro gli immigrati che non erano di ceppo anglosassone. La loro esecuzione si configurò come una sorta di linciaggio legale, successivo di pochi anni al varo delle misure per limitare gli arrivi da paesi sgraditi come l’Italia, culminate nel Johnson-Reed Act che nel 1924 chiuse l’epoca dell’immigrazione di massa.
A novant’anni di distanza, mentre gli incidenti di Charlottesville hanno riacceso la diatriba su chi possa essere considerato un «vero» statunitense e l’appartenenza alla nazione di afroamericani, ispanici e mussulmani è messa in discussione nell’America di Trump, la vicenda di Sacco e Vanzetti resta a monito delle aberrazioni dell’intolleranza xenofoba che periodicamente riaffiora nel paese che ambirebbe a essere la terra degli immigrati per antonomasia.
Stefano Luconi il manifesto 23.8.17
vedi: L'ultima lettera di Nicola Sacco al figlio
QUANDO NOI ERAVAMO SPORCHI, BRUTTI E CATTIVI
Quando i razzisti ce l’avevano con noi