Cos’è un «classico»? Un classico – ha spiegato Norberto Bobbio – è un autore «sempre attuale, onde ogni età, addirittura ogni generazione, sente il bisogno di rileggerlo». Queste parole tornano alla mente ora che siamo profondati in un cafarnao di confusioni da cui, forse, la lezione di Gaetano Salvemini, pur a sessant’anni dalla morte, può ancora tirarci fuori. Non per caso, Bertrand Russell una volta disse di lui: «Quando parlano gli italiani colti mi capita spesso di non capire. Salvemini non deve essere colto, perché quello che dice lo capisco, e quello che pensa lo penserei anch’io».
È una considerazione molto bella perché, veramente, pochissimi altri furono convinti che «chiarezza nell’espressione è probità nel pensiero e nell’azione». E però nella scrittura viva di Salvemini c’è qualcosa di più. C’è che la solida quadratura della parola gli veniva per la diritta via del suo credo democratico. «Io – confidò in uno scritto – mi mettevo dal punto di vista di un operaio, magari di un contadino analfabeta, convinto che essi avevano il diritto di capire, se volevamo essere democratici per davvero e non sacerdoti di riti arcani».
Il suo stesso socialismo non si fregiò mai del blasone di un qualche sistema filosofico compiuto, perfezionato (e doviziosamente astruso). Era invece il socialismo che si prodigava per un «po’ di bene per tutti», che denunciava il sopruso e avversava i privilegi, tutti i privilegi, anche quelli che gli operai del Nord difendevano pervicacemente a danno dei cafoni del Sud. «Il mio – puntualizzò – era il socialismo degli ultimi, non dei penultimi». Il suo ansito di giustizia, dunque, muoveva da un’esigenza schiettamente morale, e mai Salvemini tollerò che questa limpida sorgente di umanità venisse inquinata dal diluvio delle «filosofesserie» con le quali i socialisti erano usi infarcire i loro programmi politici.
«Ormai – annotò nel suo diario – credo solo nel Critone e nel Discorso della Montagna. Questo è il mio socialismo». Vero è che negli ultimi tempi Salvemini arrotondò le punte delle sue censure coi vecchi compagni di partito e al momento del riepilogo, così volle riassumersi: «Sono un socialista democratico all’antica… Questo vuol dire che non sono comunista per le stesse ragioni per cui non fui mai fascista, e non sono mai stato né sono oggi, né sarò mai clericale». Sono parole del 1954, quando già da qualche tempo era ospite a Sorrento di donna Titina Ruffini che lo volle con sé nella villa «La Rufola».
Quando la strada della sua vita andava ormai declinando, Sorrento – nelle intenzioni di Salvemini – avrebbe dovuto essere un’oasi di pace dove raccogliere le forze superstiti per perfezionare quelle opere in cui, tanto tempo prima, il talento dello storico aveva profuso i tesori più preziosi della sua intelligenza. Solo che Salvemini non era uomo da restarsene segregato negli studi; la scintilla della passione divampò ancora una volta. Ed eccolo allora, precisamente come nel 1913, «buttarsi allo sbaraglio, anche senza speranza alcuna». Non vi fu birbonata che sfuggisse alle sue requisitorie; non evento di costume che mancasse di segnalare su «Il Ponte» di Calamandrei e «Il Mondo» di Pannunzio.
Ne venne fuori qualcosa di più che un libro di storia. Fu una lezione morale dove troviamo tutte le ragioni, espresse come solo lui sapeva esprimerle, con sfavillio di arguzie e la felicità dello sberleffo, tutte le ragioni troviamo che militano a favore dello Stato liberale contro la clerocrazia nera e il totalitarismo rosso.
Ma soprattutto risaliamo alla tempera da cui escono riscaldate le virtù di un pensiero autenticamente democratico. E che per Salvemini si riassumevano tutte nel rispetto per l’umanità dei propri simili; una umanità non più fatta da «pecore cieche … bisognose di cani mastini e pastori infallibili», ma vivificata da uomini diritti che ricusano di consegnare a terzi l’esito dei loro giorni.
Certo: le moltitudini sono sono quelle che sono, balorde e squilibrate; non per questo però il democratico sincero eleva ad ideale l’arte di governo che sfrutta la brutalità umana anziché sviluppare più che sia possibile le forze dell’intelligenza e della moralità. «Noi – spiegava Salvemini – pur sapendo quanta parte di pecora, e di cane, e di lupo, e di suino, c’è nell’uomo riteniamo che l’uomo sia capace di diventare meno brutto, grazie alla educazione di quella intelligenza che lo distingue dal bruto. E il solo metodo disponibile per educare quella intelligenza è la discussione».
Già: la discussione. Su tutto, e con tutti. Purché condotta con la certezza che anche nella melma delle idee più confuse, anche lì, si può sempre setacciare una pagliuzza d’oro. Precisamente come avveniva a Sorrento. E fu per questo, che ai vecchi nuovi amici si aggiunsero, anche i più diversi e lontani dai suoi convincimenti. Non ultimo don Rosario Scarpari, il buon prete che quasi ogni giorno era lì, a casa di donna Titina e col quale Salvemini, già sfibrato e prossimo alla morte, intrattenne un dialogo le cui battute finali prendono colore di attualità per molti dibattiti dei giorni nostri.
«Ma perché – chiese Salvemini – la gente ha tanto paura della morte che costringe ad aspettare chi vorrebbe morire?» Don Rosario rispose: «Per la semplice ragione che nessuno si ritiene padrone della vita di un altro; è una forma di rispetto e di affetto». «Rispetto ed affetti ingiusti, caro don Rosario. Se potessi anticiperei il mio ultimo sonno, perché la morte è forse come un sonno, un riposo che non finisce mai. Lei non può far nulla per accelerare la sua venuta? Non può darmi una pastiglia? Preghi il Padreterno che mi faccia morire presto, veramente mi farebbe un gran favore».
Salvemini fu esaudito tre giorni più tardi. Era il 6 settembre del 1957. Don Rosario ne ricorderà per sempre il sorriso che – disse – era sorriso «da bambino e da contadino insieme, gratuito come l’innocenza e la spontaneità».
Gaetano Pecora Il Sole Domenica 3.9.17
vedi: IL DOVERE DELLA MEMORIA: 6 settembre. La forza della coscienza.
La forza della coscienza: GAETANO SALVEMINI
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