Ho denunciato il mio capo che aveva usato 500 mila € dell’azienda (soldi pubblici) per le sue spese. Intorno a me, dopo, terra bruciata: trasferito, ho cambiato lavoro.

Dal libro di Andrea Franzoso,  Il disobbediente,  ed. PaperFirst 2017  € 12

“Usa quelle informazioni a tuo vantaggio”, mi suggerì l’allora capo del collegio sindacale della società per la quale lavoravo: Ferrovie Nord Milano. Si riferiva alle spese pazze dell’allora presidente Norberto Achille. Io, invece, andai dai carabinieri e denunciai le ruberie. Avevo scoperto che il presidente addebitava all’azienda le proprie spese personali e quella della sua famiglia: abiti firmati, argenteria, elettrodomestici, serate in locali notturni, viaggi, il noleggio di un’auto in California, pranzi e le cene al ristorante in località di villeggiatura, la spesa al supermercato, la benzina, gli abbonamenti alla PayTV – compreso l’acquisto di film porno –, le scommesse sportive e il poker online, la toelettatura del cane, articoli di profumeria, 125 mila euro di telefonate fatte dai suoi familiari con i cellulari di servizio, oltre 180 mila euro di multe accumulate da suo figlio con l’auto aziendale e così via. In totale, circa mezzo milione di euro.

Soldi pubblici, soldi nostri. L’azienda è controllata da Regione Lombardia. Molti sapevano, ma per opportunismo, paura o rassegnazione hanno taciuto. La procura di Milano aprì un’inchiesta e Norberto Achille fu indagato e costretto a dimettersi. Rinviato a giudizio per peculato e truffa aggravata, è ora in attesa di sentenza, fissata per il 24 ottobre prossimo. Il pm ha chiesto per lui due anni e otto mesi di carcere.

Con l’arrivo dei nuovi vertici, per “premio” fui trasferito in un nuovo ufficio senza alcun compito di controllo, con poco o niente da fare. Attorno a me, terra bruciata. La maggior parte dei colleghi mi voltò le spalle. Infine, la società mi propose una risoluzione consensuale. Accettai di andarmene: ormai non vi erano più le condizioni per restare.

Per alcuni sono un traditore, una spia, un infame. Per altri un “eroe”. I giornalisti mi hanno definito “whistleblower”. Letteralmente: il suonatore (blower, dal verbo to blow, soffiare) di fischietto (whistle), cioè colui che, come l’arbitro o il guardalinee, segnala il gioco sporco. Una parola inglese intraducibile in italiano. Non esiste, infatti, un termine semanticamente equivalente per riferirsi a chi denuncia corruzione e malaffare. I termini di cui disponiamo nel nostro vocabolario hanno tutti un’accezione negativa: delatore, talpa, sicofante, gola profonda, denunciante e così via. Ciò significa che manca l’idea, che non fa parte della mentalità italiana. “Chi fa la spia non è figlio di Maria”, abbiamo imparato sin da bambini.

Non sono il primo e non sarò l’ultimo ad aver “soffiato il fischietto”, denunciando fatti illeciti o, più in generale, contrari all’interesse pubblico. C’è persino uno dei padri fondatori degli Stati Uniti: Benjamin Franklin. È considerato il primo whistleblower americano. Nel giugno 1773 rese pubbliche alcune lettere riservate che mostravano che il governatore del Massachusetts aveva sollecitato il governo britannico a inviare rinforzi militari per reprimere i focolai indipendentistici di Boston. Questa rivelazione portò alle dimissioni del governatore e al suo esilio. All’inizio degli Anni Settanta del secolo scorso, le rivelazioni di due whistleblower, Daniel Ellsberg (Pentagon Papers) e Mark Felt (Watergate) contribuirono niente meno che alle dimissioni del presidente degli Stati Uniti Richard Nixon.

In Italia, il primo di cui si ha memoria è il garibaldino veneto Cristiano Lobbia. Nel giugno 1869, da deputato, denunciò che la concessione per quindici anni della Regia Tabacchi al Credito Mobiliare era stata facilitata attraverso il pagamento di tangenti. Ne scoppiò un grave scandalo. Lobbia subì un attentato e venne messa in moto, contro di lui, una pesante macchina del fango. Oggi il suo nome è sconosciuto ai più, ma all’epoca era popolarissimo. Il cappello “alla Lobbia”, che aveva una speciale foggia caratterizzata da un incavo nel mezzo, richiamava la bastonata che un sicario gli diede in testa e che lo lasciò mezzo tramortito lungo la strada. Il Gran Caffè Biffi, invece, inventò un piatto speciale che ricordava la cartelletta coi documenti riservati che provavano la corruzione di alcuni suoi colleghi deputati: il “Plico alla Lobbia”.

Negli ultimi anni il fenomeno ha conosciuto uno sviluppo dirompente. Ci sono stati casi internazionali che hanno guadagnato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo, a partire dalla controversa figura di Julian Assange. Nel 2006 ha fondato WikiLeaks, una organizzazione non governativa (ong) nota per aver pubblicato informazioni secretate, in particolare quelle riguardanti le guerre in Afghanistan e in Iraq. Sono milioni i documenti riservati che ha diffuso nel corso degli anni. L’intento di WikiLeaks è di fornire una piattaforma digitale attraverso cui cittadini e organizzazioni che vogliano denunciare scandali o fatti illeciti di cui siano venuti a conoscenza possono interagire con giornalisti e attivisti pronti a divulgare al pubblico il contenuto delle rivelazioni.

Un altro celebre whistleblower statunitense è Edward Snowden. Nel 2013, mentre era impiegato alla National Security Agency (NSA), diffuse informazioni riguardanti le massicce operazioni di sorveglianza messa in atto da quell’agenzia governativa nei confronti di milioni di cittadini, attraverso l’accesso alle loro conversazioni telefoniche, email e navigazioni in internet.

Chelsea Manning, analista dell’intelligence durante le operazioni militari in Iraq, consegnò numerosi documenti riservati a Wikileaks, tra cui un video comprovante l’uccisione di dodici civili inermi da parte di due elicotteri Apache. Arrestata e condannata per aver diffuso notizie coperte da segreto, ha scontato sette dei trentacinque anni di carcere previsti, grazie alla commutazione di pena decisa poco prima della fine del proprio mandato dall’allora presidente Barack Obama. È tornata libera nel maggio di quest’anno.

Il più famoso whistleblower europeo è Antoine Deltour, un ex dipendente della società di revisione ProicewaterhouseCooper (PwC) che nel 2014 portò alla luce lo scandalo degli accordi fiscali di favore che il governo lussemburghese aveva firmato con oltre 340 multinazionali: seppur perfettamente leciti in quel Paese, questo tipo di tax ruling era palesemente contrario all’interesse pubblico europeo, perché violava i principi di leale concorrenza e consentiva alle aziende coinvolte di eludere le tasse a danno degli stati in cui prevalentemente operavano. Insignito del “EU Citizen Prize” da parte del Parlamento europeo, nel giugno 2015, “per aver contribuito alla promozione dei valori comuni”, è stato invece condannato dal tribunale del Lussemburgo a un anno di carcere nel giugno 2016 per furto e violazione di segreto. La sua pena è stata ridotta in appello, nel marzo 2017.

Per quanto riguarda l’Italia, ricordiamo il caso del calciatore Daniele Farina, da cui partì l’indagine sulle partite truccate e quello di Caterina Uggè, la funzionaria del comune di Lodi che denunciò l’allora sindaco Simone Uggetti di aver pilotato una gara d’appalto (il processo è in corso). Infine, recentemente, lo scandalo dei concorsi truccati nell’università, che ha portato all’arresto di sette professori di diritto tributario. A suonare il fischietto, questa volta, un ricercatore: Philip Laroma Jezzi. Anche Giulia Romano, ricercatrice di Pisa, ha presentato un esposto simile a quello del suo collega fiorentino, segnalando che un concorso sarebbe stato cucito su misura addosso al candidato designato.

Nonostante il ruolo dei whistleblower sia fondamentale per portare alla luce episodi illeciti, l’Italia attende da anni che venga approvata una legge a tutela di chi si assume il rischio di denunciare. Il ddl Businarolo, approvato alla Camera dei deputati il 21 gennaio 2016, è ora al Senato dove, dopo aver ottenuto il via libera da parte della commissione affari costituzionali, è finalmente approdato in aula.

E in Europa? La situazione è frammentaria. Solo cinque stati hanno una normativa organica in materia: Irlanda, Lussemburgo, Romania, Slovenia e Regno Unito. Tuttavia, nonostante la protezione prevista da questi paesi sia considerata di tipo avanzato, presenta svariate lacune. Il Lussemburgo, per esempio, non tutela i whistleblower che si rivolgono ai media o alle ong: il caso di Antoine Deltour è emblematico. Sedici stati membri dell’UE prevedono solo una difesa parziale, inserita in leggi anticorruzione (è il caso dell’Italia, che ad oggi prevede una tutela seppur minima solo a favore del pubblico impiego, inserita in un comma della legge Severino) o nelle normative del lavoro o del pubblico servizio. Gli altri stati non prevedono alcuna protezione.

In una risoluzione del 25 novembre 2015, il Parlamento Europeo ha chiesto alla Commissione Europea di avanzare una proposta di direttiva sul whistleblowing. Sono state organizzate consultazioni pubbliche e la prima proposta legislativa sarà presentata entro il 2018.

Andrea Franzoso       Il Fatto   16 ottobre 2017

 

vedi: Corruzione. La questione morale e la mancanza di una religione civile

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