A Casarsa, il paese di Pasolini, paese tutto nuovo, la cosa più vecchia sono le vigne intorno al paese. Il Friuli è antico solo nelle ossa dei suoi contadini, il resto è villetta, capannone, traffico di gente che lavora, ragazzi davanti a un bar col bicchiere in mano. Qui c’è tutta l’Italia com’è adesso, solo un poco più silenziosa, triste come un silenzio domenicale. Pasolini è nella sua tomba a fianco alla madre.
Nel suo paese pare compiuta la mutazione antropologica che ha messo le merci al posto del sacro. In altri posti pare esserci ancora lotta, pare che l’arcaico possa ancora risalire in superficie, qui la radice è ben essiccata: si lavora nel proprio lavoro, nella propria vita, negli svaghi, nel tempo perso, nell’amore, nell’andare in giro.
La vita come la pensava Pasolini era un’ustione, un furore, un dannarsi. Casarsa sembra l’esatto opposto: le macchine sfilano sulla strada tra la chiesa e il Comune: si può comprare ogni tipo di profumo, di detersivo, si può andare in città o in montagna.
Io a Casarsa non mi sento a mio agio. Mi mancano le curve, gli scalini, la ruggine, la porta coi colori di una volta, i cani per strada. Se un gatto uscisse per strada qui non avrebbe scampo.
Penso a Pasolini e ai volenterosi che qui provano a tenerne viva la memoria: un’impresa disperata perché qui e altrove siamo tutti già morti per sempre, da sempre dimenticati.
Franco Arminio Il Fatto 29 aprile 2018
Vedi: Pensiero Urgente n.209)
Pasolini: morte di un profeta laico.