“I social permettono alle persone di restare in contatto tra loro, ma danno anche diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano al bar dopo un bicchiere di vino e ora hanno lo stesso diritto di parola dei premi Nobel”.
(dal discorso di Umberto Eco all’Università di Torino, in occasione della laurea honoris causa in Comunicazione e Culture dei media – 11 giugno 2015)
Popolo e populismo. Pur avendo la stessa radice, i due termini al giorno d’oggi – in Italia e in tutto l’Occidente – stanno diventando antitetici. Dall’America di Donald Trump fino alla nostra povera Europa, insidiata dai nazionalismi e dai sovranismi, il populismo è ormai sinonimo di anti-sistema, anti-establishment, anti-élite. E rischia di degenerare perciò nel ribellismo, nell’autarchia o in quella che con un ambiguo neologismo si chiama “democratura”. Ovvero, nell’ossimoro della “democrazia autoritaria”.
La storia insegna che, per questa strada, spesso regimi e dittature si sono installati al potere con il consenso popolare, dimostrando che l’elettore – a differenza del cliente – non sempre ha ragione. Accadde in Italia nel 1924, quando le due liste fasciste ottennero il 66,3% dei voti e conquistarono il governo. E il fenomeno si ripeté con conseguenze ancora più disastrose qualche anno più tardi in Germania, dove il partito nazista trionfò nelle elezioni del ’32 attirando grandi masse di disoccupati e diseredati, esasperati dalla lunga depressione economica iniziata nel ’29.
Ora è vero che il mondo è profondamente cambiato. L’opinione pubblica è più informata e avvertita. I mezzi di comunicazione di massa assicurano la circolazione delle idee, delle opinioni e anche del dissenso su scala planetaria, nel circuito più vasto della comunità internazionale. Ma non a caso sono i mass media e le strutture sovranazionali gli obiettivi privilegiati dell’attacco al sistema occidentale, al di là dei suoi limiti e difetti che pure una società più equa e solidale ha il dovere correggere o eliminare: è questo, infatti, l’humus in cui il populismo si radica e prospera, finendo a volte per tradire i bisogni e le aspettative popolari.
Una grande responsabilità, in questa pericolosa deriva, ricade sui media e in particolare sui social media. Sui media tradizionali, quando tendono a interpretare il loro legittimo ruolo di contropotere non nel senso proprio del controllo e della critica al potere, o ai poteri costituiti, bensì nel senso di una contrapposizione pregiudiziale e strumentale. Quasi fossero una parte o controparte in causa, piuttosto che un organismo al servizio dei cittadini.
Sui social media, perché consegnano a tutti un potere di comunicazione che – nonostante il suo indubbio valore democratico – può esaltare l’individualismo, il protagonismo o l’esibizionismo personale, al di fuori di qualsiasi regola e limite.
Basta così che un leader politico invochi incautamente l’impeachment contro il presidente della Repubblica, salvo poi fare retromarcia ventiquattr’ore dopo, per indurre alcuni sconsiderati – “imbecilli”, avrebbe detto Umberto Eco – a mettere in Rete insulti, offese o addirittura minacce di morte contro il capo dello Stato.
È l’immediata amplificazione mediatica di questi network che diffonde e propaga il contagio virale, in un circolo vizioso d’irresponsabilità collettiva. E allora i social rischiano di diventare antisociali, infiammando quel populismo che va contro gli interessi effettivi del popolo sovrano. Auguriamoci perciò che adesso l’Italia giallo-verde diventi il laboratorio per sperimentare un nuovo “populismo di governo”.
Giovanni Valentini Il Fatto 2 giugno 2018
Vedi: Il populismo e il pericolo dei movimenti "contro"
L'incompetenza non è la soluzione
Il popolo si è dissolto nella massa
Contro il populismo serve più cultura
Verso una democrazia cesaristica