Da sempre la Storia si alimenta dei nostri terrori, dai grandi conflitti in Europa fino ai sovranismi attuali. Anche lo Stato, diceva Hobbes (188- 1679), nasce così Per questo dobbiamo usare l’antidoto più potente e meno buonista: la fiducia
La paura è il filo conduttore della nostra storia, dal tempo dei grandi conflitti in Europa, della “guerra civile di religione”, dei conflitti di classe e della cosiddetta guerra civile europea del secolo scorso fino a noi e alla rinascita del nazionalismo, del cosiddetto sovranismo e del razzismo, che si denomina “suprematismo bianco”.
Le istituzioni che abbiamo creato, a incominciare dallo Stato, sono figlie della paura, non certo della fiducia. Nello Stato c’è qualcosa di paradossale e contraddittorio: ha le sue radici nella paura e si propone di combatterla. La sicurezza è la sua ragion d’essere. E come fa? Attraverso la concentrazione, potremmo dire, della “amministrazione della paura” nelle sue mani.
Se, per ipotesi utopistica, vincesse definitivamente la sua battaglia contro la paura, non avrebbe più ragione d’esistere. Al contrario, la diffusione della paura non fa altro che rafforzare quella tale amministrazione. Il circolo vizioso delle società dei paurosi sta in questo: la soluzione si ricerca in altra paura, in paura maggiore che prevalga sulle minori.
Questo è il paradosso delle istituzioni umane: per contrastare la paura se ne crea una maggiore. Più cresce la paura, più cresce la domanda di maggiore paura e, per questo, si è disposti a molte rinunce che riguardano diritti e libertà. Proteggimi, ed io in cambio ti do sottomissione. Più ho paura, più sono disposto a sottomettermi. Conformemente alle aspirazioni democratiche, alla paura abbiamo associato il consenso. Ma è un’aggiunta. La radice non s’è spenta.
Il consenso c’entra, ma come componente penultima; l’ultima è la paura. Se oggi il tema della paura domina le discussioni sulla crisi della democrazia, si tratta soltanto dell’emersione d’un elemento primordiale in tutte le società. E perfino superfluo ricordare che la più celebre rappresentazione dell’essenza dello Stato moderno, elaborata in un tempo di feroci lotte intestine su territori in cui si trovavano a coesistere fedi religiose e politiche implacabilmente nemiche, ebbe al centro il problema della liberazione dalla paura.
Leviatano (di Thomas Hobbes, 1651) fu una filiazione della paura. Oggi le paure si sono moltiplicate, per esempio per la disponibilità di beni naturali essenziali che scarseggiano e per le cosiddette identità culturali minacciate dal cosiddetto multiculturalismo. Un tempo la paura riguardava il presente, oggi il presente e il futuro. Dunque, tra tutte le componenti dell’umana convivenza, la paura è la più determinante. Se si distingue la paura diffusa come veleno sociale dalla paura concentrata come strumento di dominio politico, si può dire che senza la prima, la seconda avrebbe vita stentata, perché si mostrerebbe nella sua totale arbitrarietà, sarebbe priva di legittimità, si reggerebbe sulla nuda forza senza giustificazione. I “regimi forti” non si basano, in ultima istanza, sulla forza, ma sulla paura perché la paura invoca la forza e la rende non solo tollerabile ma anche desiderabile.
Tempo di paure, tempo di autoritarismi. La storia è testimone generosa di esempi, ma lo è anche l’attualità. Avanzano l’internalizzazione e la globalizzazione della paura. E la paura ci rende tutti più cattivi. Si salvi chi può. Prima noi, gli altri a mare. La paura è intollerante perché induce alla barbarie del capro espiatorio e alla teoria del complotto. Una volta si trattava dei cristiani, poi degli ebrei, poi degli eretici e dei satanisti, poi dei massoni, poi delle cricche affaristiche, poi dei socialisti; infine dei migranti invasori, manovrati da oscure potenze.
La costruzione del capro e dei complottisti è una formidabile arma politica perché divide la società coalizzando gli amici contro i nemici. Così nascono i “falliti della nazione” che chiamano a raccolta contro gli antinazionali, cioè gli internazionalisti e i cosmopolitici, e contro gli invasori. Nascono i populisti che pretendono di parlare in nome del popolo tutto intero, da noi in nome di “gli italiani”, e proclamano ch’essi vengono prima d’ogni altro. Fanno della paura altrui la loro forza.
La divisione amico-nemico è la massima e più cruenta raffigurazione e, al tempo stesso, legittimazione e costituzionalizzazione della violenza come materia e strumento d’azione politica. È pieno di significato che quella dottrina, che è tenuta viva nelle diatribe dei dotti come nelle banalità e nei luoghi comuni, e talora nelle azioni di tante persone, sia stata elaborata tra le due grandi guerre, al tempo della cosiddetta “guerra civile europea”. Essa giustificava l’idea della politica come “integrazione”, parola di per sé piuttosto innocente, anzi pacifica, se indica semplicemente l’ideale della con-vivenza dei distinti, ma che diventa parola terribile se sottintende l’esistenza di “non integrabili”. I non integrabili, infatti, devono essere tenuti ai margini, privati di diritti, respinti e perseguitati, e all’occorrenza eliminati.
Stabilire chi siano i nemici, i non integrabili, è “operazione sovrana” che si avvale di argomenti o fantasmi tratti da differenze e pregiudizi etnici e razziali, religiosi, politici, nazionali, ecc. Che il mondo non sia uniforme, alla stregua dei criteri ora detti, è un dato di fatto e, per qualcuno (tra cui chi scrive) anche una qualità positiva da preservare.
La democrazia non conosce quel genere di sovranità perché è per l’appunto una forma di convivenza per affrontare le diversità rispettandole. Quando, invece, le differenze da dato di fatto si trasformano in paure e ossessioni, diventano terreno di coltura di violenza. Si comprende facilmente che i nemici della democrazia soffino su questo fuoco. La paura, inoltre, è un ingrediente essenzialmente antipolitico, almeno per come la politica s’intende nella democrazia moderna. A differenza delle concezioni antiche secondo le quali la politica era l’arte del “buon governo” della polis, nelle concezioni democratiche odierne per politica s’intende scelta dei fini e la competizione per perseguirli.
Orbene, quando domina la paura queste cose diventano un lusso che non ci si può permettere. Di fronte al pericolo incombente, taccia la politica, tacciano i politici, anzi i “politicanti”, e si archivino vecchie categorie come quelle di “destra” e di “sinistra”. Esistono solo più nudi fatti che, come si dice, non sono né di destra né di sinistra, di fronte ai quali è vietato dividersi.
L’antidoto alla paura è la fiducia. È difficile dire se sia più “naturale” la paura o la fiducia. Sappiamo tuttavia per certo che ci sono fasi storiche in cui prevalgono la paura e i discorsi d’odio. Questa è una di quelle. Il “buonismo” è un’accusa alla quale pochi sanno ribattere. Del valore della fiducia si è poco consapevoli forse perché essa è implicita nella democrazia, un regime politico che si basa sulla tacita promessa di fidarsi gli uni degli altri, cioè di non ingannarsi e di non cercare di sopraffarsi gli uni gli altri.
Delle cose ovvie, non c’è bisogno di dire. Nel linguaggio politico e giuridico la fiducia, tuttavia, compare con parole eticamente impegnative come fraternità e solidarietà. Poiché queste passioni o esistono o non esistono ma, evidentemente, non possono essere imposte per legge, le relative parole sono relegate nel linguaggio dolciastro, consolatorio, per l’appunto buonista di chi fa prediche costituzionali.
Tuttavia, se le guardiamo dal punto di vista sociale, sono piene di contenuto. Come ogni coltivatore deve preoccuparsi non solo della salute delle piante ma anche e prima di tutto della buona qualità del terreno, così la democrazia ha sì bisogno di buone istituzioni, ma ancor prima di buona qualità del suo humus sociale.
Qui, in quanto si desideri vivere in pace, siamo chiamati in causa. Tutti noi, nessuno escluso. La passività, l’indifferenza, l’estraneità, il “non mi tocca” sono la tentazione alla quale si cede facilmente per quieto vivere. «Non mi tocca ancora»: ricordiamo le parole pronunciate da un pastore protestante, Emil Martin Niemoller (1892- 1984), in un periodo buio e tenibile della storia che ci sta appena appena alle nostre spalle.
«Quando i nazisti presero i comunisti, io non dissi nulla perché non ero comunista. Quando rinchiusero i socialdemocratici io non dissi nulla perché non ero socialdemocratico. Quando presero i sindacalisti, io non dissi nulla perché non ero sindacalista. Poi presero gli ebrei, e io non dissi nulla perché non ero ebreo. Poi vennero a prendere me e non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa».
Gustavo Zagrebelsky La Repubblica 28 /3/ 2019
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