L’intervista. Lo studioso Pierluigi Valsecchi: “Il razzismo che torna è figlio dell’ignoranza e della rimozione dei nostri crimini”. Intanto supera le 25 mila firme il Manifesto in difesa della storia di Giardina, Segre e Camilleri.

Quanta Africa c’è nella coscienza degli italiani? E che relazione esiste tra la recrudescenza razzista verso l’uomo nero e i vuoti di memoria sui nostri crimini coloniali? Il Manifesto perla Storia ci obbliga a porre una domanda cruciale in un’Italia che dà prova di intolleranza e xenofobia. «In realtà nella cultura italiana la decolonizzazione non è mai cominciata», dice Pierluigi Valsecchi, storico dell’Africa con cattedra all’Università di Pavia. Ora sta per ridare vita alla rivista Africa per l’editore Viella, ma i suoi studi sull’area occidentale africana sono prevalentemente in lingua inglese ed è già questa una spia del problema: «Agli italiani non interessa l’Africa come soggetto storico autonomo, ma solo in relazione al l’Italia o all’Europa».

Sta dicendo che la cultura italiana è provinciale? «Sto dicendo che da noi l’africanista deve sapere tutto dell’Etiopia, della Somalia, dell’Eritrea e della Libia. E naturalmente dal punto di vista della storia nazionale, mai dal punto di vista degli altri popoli. Mentre i miei colleghi francesi o britannici, olandesi o spagnoli hanno uno sguardo più ampio sulle società africane».

Noi manteniamo un’ottica coloniale? «In un certo senso sì. Ancora oggi nei libri di storia sul colonialismo la parte italiana è piena zeppa di nomi, personaggi e singole individualità, mentre la società ospitante è raccontata per grandi categorie: non ci sono persone, ma gli “amara”, gli “arabi”, i “senussi”… A noi continua a interessare ciò che quella vicenda ha rappresentato per la storia italiana. E in un mondo globalizzato come il nostro non è più sufficiente. Basta affacciarsi nelle scuole di figlie e nipoti per vedere quanto questi popoli siano diventati parte costitutiva».

Per questo dice che da noi la decolonizzazione non è mai cominciata? «Questa è anche conseguenza della peculiarità della storia italiana. Diversamente dalle altre cinque o sei potenze europee provviste di colonie africane, il nostro paese perse bruscamente i suoi territori durante la guerra, tra 1941 e il 1943. Da noi non c’è stato quel lungo processo di decolonizzazione che ha costretto il ceto intellettuale e le storiografie degli altri paesi a elaborare il tramonto degli imperi coloniali. In Italia è intervenuta una cesura netta sia sul piano politico che sul piano della memoria. E la cesura ha significato rimozione».

Così abbiamo rimosso i crimini e le centinaia di migliaia di morti in Libia e in Africa Orientale. «il guaio è che abbiamo rimosso i crimini, ma abbiamo rimosso anche l’esperienza di convivenza vissuta nella storia precedente da generazioni e generazioni di italiani: una quotidianità con gli africani intessuta di relazioni sentimentali, sociali, economiche. In sostanza abbiamo conchiuso entro la parentesi del fascismo l’intera nostra storia coloniale, dimenticandoci dell’Italia liberale. E una volta fatto questo, abbiamo espunto dalla memoria il ventennio fascista».

Come se dal nostro album dei ricordi avessimo cancellato tutte le fotografie africane. «Sì, con un’altra peculiarità che distingue il colonialismo italiano dagli altri: mentre i sudditi coloniali francesi o britannici o belgi avevano accesso alla madre patria, i governanti italiani hanno preferito tenere i colonizzati fuori dal territorio nazionale. Questo ha avuto conseguenze rilevanti: una volta rimosso quel capitolo dalla memoria, non abbiamo più avuto punti di contatto. Lei ricorda neri per strada tra gli anni Sessanta e Settanta? Avere un compagno di banco etiopico faceva notizia».

Anche i nostri manuali di storia non aiutavano. «No. Vi si leggeva di “giovani popoli che si affacciavano alla ribalta della storia mondiale” attraverso le nuove indipendenze. Come se prima non fossero mai esistiti. In realtà con quei “giovani” popoli avevamo avuto rapporti fin dal XV secolo, con la delegazione del Negus di Etiopia al Concilio di Firenze. Senza contare che molti di noi avevano avuto relazioni famigliari. Ma anche il fenomeno del meticciato è stato completamente rimosso».

A. Morone, La fine del colonialismo italiano, ed. Mondadori 2019

Un recente libro di Antonio Morone, “La fine del colonialismo italiano”, mostra come nel dopoguerra abbia a lungo prevalso un’immagine positiva del nostro operato. «Sì, per un lungo periodo è stata valorizzata l’azione civilizzatrice italiana grazie alla costruzione di strade e infrastrutture. Ed è sceso il silenzio sulle violenze perpetrate contro la popolazione locale, anche perché i criminali di guerra non sono mai stati sottoposti a processo: un esempio è Rodolfo Graziani».

Ancora oggi gli vengono dedicati dei sacrari: è accaduto nel 2012, nel Lazio, con soldi pubblici. Il sindaco di Affile è stato poi condannato per apologia di fascismo, ma il mausoleo è ancora là. «Come ancora esistono strade dedicate a Pietro Maletti, l’esecutore del massacro di Debre Libanos, che costò la vita di duemila persone. Sul piano della memoria pubblica occorrerebbe fare di più. Ricordo il discorso di scuse pronunciato nel 1997 dal presidente Scalfaro al Parlamento etiopico: segnò un passo importante, ma non basta».

Nel 2011 ci siamo dimenticati il centenario della guerra in Libia. E nel 2015 è passato sotto silenzio l’ottantesimo anniversario della guerra fascista in Etiopia. «Si, una rimozione protratta. Il silenzio del 2011 fu dettato da ragioni di opportunità politica: era l’anno dell’intervento militare contro Gheddafi. Mi chiedo però se in Francia sarebbe stato possibile dimenticare l’anniversario della più importante guerra coloniale».

La storiografia italiana ha avuto una responsabilità in questa rimozione? «Al principio sì, dal momento che gli africanisti più autorevoli del dopoguerra erano gli stessi colonizzatori. La generazione successiva è apparsa fin troppo distaccata, ma vi sono state importanti eccezioni come Gian Paolo Calchi Novati, Giorgio Rochat e Angelo Del Boca: a partire dagli anni Settanta hanno contribuito a spostare la percezione degli italiani. Fondamentali anche le ricerche di Matteo Dominion. Ma non sempre i risultati della ricerca sono diventati patrimonio collettivo: la battaglia tra Del Boca e Indro Montanelli, che negava l’uso del gas iprite in Etiopia, restituisce la separazione tra studi storici e coscienza nazionale». Una distanza che tuttora permane.

Ma le rimozioni hanno a che vedere con il razzismo strisciante di questi giorni? «Le connessioni mi sembrano evidenti. Non solo non abbiamo chiesto scusa per i crimini, ma continuiamo a ignorare il nostro debito verso l’Africa sul piano dell’immaginario e dei codici culturali. Siamo razzisti anche per ignoranza».

Simonetta Fiori      La Repubblica  9/5/2019

 

 

L’appello per la Storia. Diventare cittadini.

L’iniziativa La raccolta di firme sotto il manifesto promosso da Giardina, Segre e Camilleri prosegue e si è rivelata un successo inatteso. Dimostra l’attaccamento a una disciplina che ci aiuta a capire il nostro ruolo nel mondo.

L’appello per la storia a storia è fondamentale perché siamo cittadini, e non solo individui. Il fatto che oggi lo si debba rivendicare è già un segno dei tempi. La storia ci rende infatti coscienti di ciò che siamo e del percorso che abbiamo compiuto per diventarlo, insieme con gli altri, ci mette davanti i nostri errori e i nostri successi e ci costringe a prenderne atto.

La vicenda di un popolo, di una nazione, di uno Stato può essere compresa solo conoscendo il suo tracciato, le scelte che l’hanno determinata, i valori che l’hanno ispirata, il contesto che l’ha favorita o condizionata. È attraverso questa conoscenza che si acquista una nozione del mondo e del suo evolversi, quindi del nostro ruolo in questo paesaggio politico, sociale, culturale.

Senza una coscienza storica la politica è improvvisazione, interpretazione estemporanea del momento, puro istinto, sia da parte di chi la esercita nella cosa pubblica, sia da parte di chi la segue come cittadino, giudicando, prendendo parte, premiando e punendo con il voto.

La storia è di per sé un insegnamento critico, perché mette a confronto esperienze, teorie e politiche diverse tra di loro, sollecitando il giudizio, la passione e l’analisi autonoma di chi la studia.

In più, la storia è una vicenda umana, quindi è composta di storie minime che raccontano avvenimenti grandiosi, ricordandoci che la libertà e la responsabilità del singolo sono il nucleo morale di ogni grande avventura collettiva. Sono questi elementi che creano, insieme, una consapevolezza della cittadinanza e un sentimento repubblicano, nella condivisione del divenire della storia nazionale, nel suo bene e nel suo male, come identità del Paese.

Spesso oggi è proprio questo che manca, nel rifiuto della conoscenza e nella svalutazione del sapere che aprono la strada a cortocircuiti politici, culturali ed esistenziali, fino a giungere alla riproposizione di forme spurie, posture mimetiche e stilemi isolati del fascismo.

Possibili proprio per questa ragione: perché fuori dalla storia.

Ezio Mauro       La Repubblica  6/5/2019

 

Vedi:   Il popolo scomparso nella crisi democratica

Il mancato lavoro della memoria

Salviamo la Storia. La cultura italiana si mobilita.

Nostra ipocrisia

La memoria riesumata del presente

Un Paese immemore e slabbrato


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