In Italia esisteva un argine che valeva tanto per la Lega di Bossi quanto per quella di Salvini, almeno fino all’anno scorso. Entrambi potevano raggiungere la doppia cifra al Nord, tenere saldamente il Veneto ed essere l’ago della bilancia per la tenuta dei governi di centrodestra, ma non superavano la linea simbolica che passando per Roma divideva il sopra dal sotto. Quell’argine di memoria, orgoglio e appartenenza territoriale resisteva da oltre vent’anni, ma ora è crollato. Il Sud ha dimenticato.

Le elezioni europee hanno sdoganato la Lega nel Meridione. Alle elezioni politiche del 2018, nonostante il 17% segnato a livello nazionale, la Lega al Sud si era fermata al 6% delle preferenze, mentre il M5S aveva ampiamente sorpassato la soglia del 40%. Complice la forte astensione, il partito di Luigi Di Maio è sceso al 29% lo scorso 26 maggio.

Per spiegare l’avanzata della Lega al Sud è necessario partire da un dato: Matteo Salvini è stato il politico più votato nella Circoscrizione Sud: se al Nord la Lega è radicata nel territorio, con una rete di comuni e regioni dove la fiducia degli elettori va agli amministratori locali a prescindere dai vertici del partito, il meridione ha votato il suo leader. Trainata da una figura che ha incentrato l’intera campagna elettorale sulla sua figura, la Lega ha raggiunto il 23,5% al Sud e il 33,4% al Centro (primo partito). Ha inoltre conquistato la Sardegna e le principali realtà legate al tema dell’accoglienza e dell’integrazione dei migranti: Riace, Rosarno e Lampedusa. Salvini ha conquistato i meridionali trovando un nuovo nemico, seguendo una filosofia chiara: “c’è sempre qualcuno più terrone di te”.

Baciamano a Salvini, Afragola (NA) gennaio 2019

Un tempo erano i meridionali i soggetti dell’ odio leghista. Colerosi, un peso per l’Italia, scansafatiche, da “lavare col fuoco” dei vulcani erano le considerazioni di una Lega che si batteva per la nascita della Padania, parlava di “Roma ladrona” e alle elezioni non si presentava più a sud del fiume Po. Salvini, impegnato in politica dal 1993, non si è mai sottratto a questo razzismo territoriale, alimentandolo in prima persona. Come capogruppo della Lega al comune di Milano proponeva carrozze della metro solo per i milanesi, nel 2009 cantava cori contro i napoletani che “puzzano” e in diverse occasioni ha dichiarato di non riconoscersi nella bandiera italiana, ma ora veste a tempo pieno i panni del patriota.

Una volta eletto segretario del Carroccio come successore di Maroni ha tentato di ricucire lo strappo presentandosi al Sud per presenziare ad alcuni comizi. A Napoli è finita male, con la popolazione inferocita, lanci di uova e la polizia costretta a portarlo al sicuro per il serio rischio che venisse linciato. Salvini, parlando dei napoletani, anni fa diceva che “sono troppo distanti dalla nostra impostazione culturale, non abbiamo nessuna cosa in comune, siamo lontani anni luce”. La gente del luogo lo scorso anno si è ricordata quelle parole e la Lega nella circoscrizione Campania 1 si è fermata a un misero 2% delle preferenze. Il 26 maggio quella percentuale è cresciuta fino al 19,2%.

La mossa vincente di Salvini è stata assicurarsi quelle che fino a pochi anni fa erano le roccaforti elettorali di Forza Italia, guadagnandosi l’appoggio degli ex luogotenenti berlusconiani ora passati in blocco alla Lega.

Si tratta dell’ennesima declinazione della secolare politica clientelare, in un Sud disposto ad accettare il cambio di bandiera politica – non per appartenenza partitica ma per convenienza personale – e che in queste europee ha rafforzato Salvini a scapito del M5S, ben lontano dalle percentuali plebiscitarie del 2018. Ridimensionata la promessa del reddito di cittadinanza, gli elettori del Sud hanno preferito astenersi o affidarsi ai vecchi baroni berlusconiani, ora salviniani. Basti pensare alla storia elettorale della Sicilia, serbatoio di voti di Berlusconi per vent’anni e teatro, non a caso, della nascita del “patto dell’arancino” del 2017 tra Salvini, Meloni e lo stesso Cavaliere. Non importa se i leghisti per anni non sono andati a genio da quelle parti: le facce restano le stesse dell’era berlusconiana e gli elettori hanno preferito tornare ad affidarsi al già conosciuto dopo la disillusione sul M5S.

Il cambio dei temi dell’ideologia di Salvini è stato lento e fatto solo per tornaconto elettorale. In realtà la struttura della Lega non ha mai mutato forma: stanno circolando in questi giorni sul web le immagini dell’ingresso della sede milanese del partito, dove campeggia ancora il motto “Prima il Nord!”. È la conferma che togliere la parola Nord dal nome del partito e dal simbolo è stato soltanto un gesto di facciata.

Lo scorso anno Salvini ha portato alcuni suoi fedelissimi alle trattative per formare il governo gialloverde. Tra questi Gian Marco Centinaio, oggi ministro dell’Agricoltura, noto per aver urlato “terrone di merda” all’allora presidente del Senato Pietro Grasso e per il suo indirizzo mail  prima della chiocciola: terronsgohome. Oppure Roberto Calderoli, che nel 2006 ha definito Napoli “una fogna infestata da topi, un insulto per l’intero Paese, da eliminare con qualsiasi strumento”.

La svolta comunicativa di Salvini è stata quella di distanziare la sua Lega e quella di Bossi, il Salvini di meno di dieci anni fa e il nuovo protettore dell’identità nazionale che interpreta ora. E l’elettorato gli ha creduto.

Un altro motivo che si cela dietro la sua ascesa al Sud è legato alla sua politica sull’immigrazione. O, per meglio dire, alla percezione che è riuscito a costruire al riguardo, dato che non esiste alcuna invasione, Salvini ha rimpatriato meno immigrati di Minniti e i porti non sono mai stati chiusi.

Il ministro dell’Interno ha creato una narrazione così convincente da far credere ai meridionali che i problemi endemici della loro terra siano responsabilità degli immigrati, e non di decenni di politiche economiche scellerate, infrastrutture fatiscenti, mancanza di lavoro, giovani costretti a emigrare e uno Stato assente. È molto più semplice individuare un nemico da additare alla frustrazione popolare, alimentare la paura dei cittadini e offrire loro la sicurezza che chiedono.

Il consenso di Salvini si basa in larga parte su questo e senza l’emergenza immigrati ne uscirebbe fortemente ridimensionato. Non a caso il suo decreto Sicurezza si basa sul paradosso di costringere i clandestini a vivere per strada, alimentando il senso di instabilità sociale che il vicepremier dice tutti i giorni di voler combattere. I meridionali hanno dimenticato di essere figli o nipoti di una generazione di migranti discriminati al Nord o fuori dall’Italia, e di essere l’oggetto del precedente odio leghista.

Salvini ha vinto una battaglia considerata impossibile fino a un paio di anni fa. Aldilà del cambio di casacca di numerosi politici, il trionfo della Lega è difficile da spiegare se si va oltre l’appeal della campagna contro gli immigrati. Infatti, a livello economico le ricette di Salvini non vanno di certo in soccorso di chi al Sud non arriva a fine mese. Quale vantaggio può avere un disoccupato siciliano da una misura come la Flat tax, studiata avendo come target di riferimento gli imprenditori del Nord Italia? La Lega è responsabile del collasso economico dell’ultimo anno, come lo era di quello creato dalle politiche dell’ultimo governo Berlusconi. Salvini però continua a promettere che abbasserà le tasse, quando invece non si trovano nemmeno le coperture per evitare l’aumento dell’Iva, lo Spread continua a crescere, l’economia è in fase di stagnazione ed è arrivata un’altra lettera con richieste di chiarimento sulla situazione del debito italiano da parte dell’Unione europea.

La nuova Lega ha la stessa matrice genetica di quella che un tempo urlava “Noi siamo celti e longobardi, non siamo merdaccia levantina o mediterranea”. Sempre più spesso capita di ascoltare un cittadino di Catanzaro, di Gela o di Foggia inneggiare al “Capitano”, usando un lessico impregnato di quell’intolleranza che un tempo era rivolta contro di lui.

Chi sostiene che le cose nella vita cambiano e che contano più le parole che i fatti, non solo tradisce la sua memoria, ma non comprende il paradosso di questo ragionamento. Non se ne accorge nemmeno quando Salvini, dopo il risultato delle Europee, ha lasciato intendere che le sue priorità sono la Tav e l’autonomia del Nord.

L’elettore meridionale preferisce ignorare questi segnali e continuare a inneggiare all’uomo forte del momento. Il Sud continuerà ad arrancare inseguendo il benessere del resto del Paese, sotto la guida di chi in passato ne avrebbe volentieri fatto a meno.

Mattia Madonia       in The Vision 31 maggio 2019

 

 

Il M5S ha regalato l’Italia alla Lega. E ora siamo in mano agli agitatori di rosari.

L’Italia è una penisola prevalentemente destrorsa. Era il segreto di Pulcinella, fino a ieri ci si proteggeva da questa verità con il monito di non confondere i sondaggi e gli umori con i voti reali. Adesso, dirompenti e ineluttabili, i voti reali sono arrivati: la Lega alle europee sfonda ampiamente il 30% ed è il primo partito italiano. È l’era di Matteo Salvini. E il dubbio – ma non la speranza – è che possa durare un altro ventennio.

Il leader del Carroccio arriva in sala stampa con il rosario in mano. Prima di commentare la vittoria lo bacia, così come ha fatto in campagna elettorale, e ringrazia nuovamente la Madonna. Qualche minuto prima aveva postato sui social una foto davanti a una libreria perfettamente in linea con la costruzione del suo personaggio. Nulla è lasciato al caso: c’è il libro di Putin, il cappellino di Trump, il santino di Franco Baresi, un Tapiro d’oro, un’ampolla della Lega e l’immagine di Cristo in un quadretto. Nella sede della Lega il sottosegretario Giancarlo Giorgetti intanto posiziona in bella vista una statua di Alberto da Giussano, un uovo di Pasqua del Milan e un canederlo sulla finestra della stanza su cui sono puntate le telecamere, come a voler rimarcare l’appartenenza territoriale. Non il miglior modo per ringraziare i nuovi elettori del Sud.

La conferenza stampa di Salvini è la liturgia delle parole preconfezionate, la prosopopea di chi sa di avere un Paese in pugno e di poter dire qualsiasi cosa. Parla di un nuovo vento europeo, ma l’invasione a Bruxelles dei sovranisti è stata quanto meno ridimensionata. Nonostante la vittoria della Le Pen, quella pleonastica di Farage e le conferme di Orbán, Kurz e del cucuzzaro di Visegrád, lo tsunami sovranista non c’è stato, e oggi è sempre più probabile una maggioranza formata da PPE, S&D e ALDE. Inoltre i Verdi, spinti dall’effetto-Greta, sono cresciuti in modo esponenziale. Salvini, prima di abbandonare la sala e promettere di presentarsi l’indomani al Viminale (una novità, considerando la sua allergia all’ufficio), non dimentica di ringraziare il vero artefice della sua ascesa, ribadendo che i grillini sono “amici e alleati”.

Salvini e il rosario

Già, il fu M5S, unico vero sconfitto di questa tornata elettorale. Finire sotto il 20%, perdendo quasi sei milioni di voti in poco più di un anno, è una catastrofe di dimensioni spropositate. Farsi superare da quel cimitero degli elefanti di nome Pd è l’onta finale su una strategia politica da scellerati – sempre che una strategia ci fosse. Se adesso assistiamo al rigurgito dei nazionalismi salviniani, la colpa è soprattutto loro.

Non soltanto hanno siglato un’alleanza insensata con la Lega, tradendo i propri ideali (o, per meglio dire, il loro accrocco di ideali); hanno subito l’impeto del socio di minoranza, che dal basso del suo 17% ha dettato legge in lungo e largo. Per un anno il M5S è stato tanto succube quanto complice della politica di Salvini: ha accettato un decreto sicurezza in odor di anni Trenta, lo ha salvato da un processo venendo meno alla promessa di contrastare l’immunità parlamentare, ha abbassato la testa su Tap, condoni fiscali e salvataggi delle banche, per poi implodere. Non possono nemmeno sperare di consegnarsi all’oblio: saranno ricordati come quelli che hanno aperto la scatoletta di tonno. E dentro c’era Salvini.

Tramortiti dalla sconfitta nazionale, i grillini si ritrovano adesso anche senza alcun gruppo in Europa. I loro alleati – un mappazzone composto da gruppi di minoranza senza una precisa identità politica ed ex rockstar prestate alla politica – hanno fallito miseramente alle urne. La completa assenza di contenuti del M5S si è palesata ancora una volta nel post-voto. Quando era necessario presentarsi in sala stampa, spiegare i motivi del disastro e parlare con il loro elettorato, hanno deciso di darsi alla fuga. Nessuno si è preso la responsabilità di parlare, mostrando un’innegabile vigliaccheria e un’innata incapacità di perdere.

E non può che strappare un sorriso quasi di tenerezza il commento “ai suoi” di Luigi Di Maio: “Siamo stati penalizzati dall’astensione”. Probabilmente si aspettavano questa sconfitta, d’altronde i sondaggi da mesi parlavano chiaro, ma non in questi termini. Adesso si ritrovano sotto scacco di Salvini, traditi da un Nord che non ha perdonato il collasso economico e da un Sud che in larga parte si è astenuto. Come per la Brexit e per l’elezione di Trump, sono state le periferie a determinare i risultati elettorali. Se Roma e Milano mantengono l’effigie del Pd, basta spostarsi di qualche chilometro e notare il mal di pancia della gente tramutato in voti per la Lega.

In particolare il Meridione è la cartina di tornasole di queste elezioni, con la Lega che orbita intorno al 25%. Piena sindrome di Stoccolma, considerando la natura del partito e gli insulti ai meridionali che hanno caratterizzato la storia leghista.

Se da un lato la destra della Meloni cresce e quella di Berlusconi inspiegabilmente esiste-resiste ancora, il Pd si trova in quella terra di mezzo dove è lecito tirare un sospiro di sollievo, ma è patetico esultare. Superare il M5S è sicuramente un motivo per ringalluzzirsi, ma il sorpasso è avvenuto più per demeriti altrui che per meriti propri. L’harakiri grillino non può considerarsi una vittoria per un partito che da marzo 2018 è incline all’immobilismo, nonostante un cambio al vertice. La politica dei pop corn e dell’attesa dei cadaveri sulla riva del fiume è la visione passiva di chi ha poco da proporre, e tanto da gufare. Aspettare sornioni il disastro, pregustando la frase “ve l’avevamo detto” denota immaturità politica, considerando l’assenza di proposte concrete. Quando poi Zingaretti parla di “ritrovato bipolarismo” forse si riferisce a quello del Pd, visto che l’unica analisi di queste elezioni è l’affermazione di una destra nazionalista al potere.

Il colpo di genio di Salvini è stato quello di smarcarsi dai ministeri più delicati, consegnandoli al M5S. Così i grillini si sono impantanati sugli errori legati all’economia, quelli che hanno causato la decrescita del Paese, mentre Salvini ha potuto gigioneggiare sull’astrattismo a lui caro: la minaccia dell’invasore, la percezione dell’immigrazione, il pugno di ferro per garantire al popolo un sergente di ferro, il condottiero che gli italiani invocano. Il M5S si è accorto con colpevole ritardo di questa dinamica, arrivano addirittura, nell’ultimo periodo della campagna elettorale, a fare la guerra contro il proprio alleato rivendicando i meriti di Gentiloni. La sublime arte del paradosso.

Adesso si prospetta uno scenario in cui Salvini – che giganteggiava già quando aveva le briciole –terrà sotto scacco il M5S, a partire dal decreto sicurezza bis passando per la decisione sulla TAV, per arrivare al nein per la legge sulla prescrizione e all’approvazione della sua Flat tax, non in versione annacquata.

Se prima l’elettorato leghista era un misto tra imprenditori veneti e scalmanati con l’elmo in testa, adesso Salvini può contare praticamente su tutti gli strati della società. L’operaio e il padrone, il lombardo e il terrone: sono tutti riuniti sotto la bandiera di chi un tempo su quella stessa bandiera c’avrebbe volentieri cagato sopra – richiamando letteralmente il concetto.

Ed è finito il tempo in cui viene ridicolizzato il calabrese disoccupato che vota Salvini, è necessario accettare la realtà e chiedersi semmai il perché. Quando Salvini governava con Berlusconi l’Italia è crollata economicamente. Con Salvini al governo insieme ai Cinque Stelle, idem. La Flat tax aiuterà il milionario, non chi non arriva a fine mese. Dunque la risposta non bisogna cercarla in arzigogolate riflessioni politiche, bensì nel ruolo del leader forte.

Il siciliano disoccupato ha votato Salvini, non la Lega. Per lo stesso motivo lo scorso anno aveva votato per il reddito di cittadinanza, non per il M5S. Evaporata la chimera di un reddito win-for-life, si è lasciato incantare dalle sirene di chi addossava la colpa della sua miseria a un nemico.

Pazienza se sui rimpatri Salvini ha fallito, se non esiste nessuna invasione e se con il decreto sicurezza gli immigrati saranno in giro per le strade delle città, senza una dimora. Ormai la narrazione del nemico è andata a buon fine: l’immigrato, l’Europa, i radical chic, Saviano, Soros, i professoroni, gli intellettuali, la cultura in generale. Salvini non vende soluzioni, ma solida rabbia. Rabbia cieca, indirizzata verso un nemico immaginario. È la protezione non richiesta, il bullo che si erge a salvatore della patria, il nemico dei barconi, l’amico dei balconi.

Eppure in politica tutto è fluido, in un attimo l’eroe può insozzarsi nel fango. Matteo Renzi alle scorse europee prese il 41%, per poi cadere nel giro di qualche stagione. La speranza è quella che la gente possa aprire gli occhi di fronte al mercimonio politico di chi ha ridotto l’elettorato a una versione estesa del Vinci Salvini, di chi si nutre d’odio e alimenta gli istinti triviali del popolo.

Vittorio Zucconi, che ironicamente se n’è andato giusto in tempo per non assistere alla proclamazione dell’imperatore Matteo, diceva che “L’odio e la rabbia sono come le famose baionette di Napoleone: li puoi usare per vincere, ma poi è scomodo sedercisi sopra per governare”. E a sappiamo tutti come è finita a Napoleone.

Mattia Madonia          in The Vision 27 Maggio 2019

 

Vedi:  Quel baciamano a Salvini svela il volto della Lega a Sud.

Salvini, il condensato delle passioni medio basse del Paese

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La sindrome d'onnipotenza dei sovranisti

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