Una Repubblica fondata sulla paura? Cerchiamo di vedere un poco nel groviglio dei nostri sentimenti politici. La paura, per l’appunto, è un sentimento e i sentimenti si possono dividere a seconda che inducano ad agire o a subire. Diciamo così: sentimenti attivi o passivi.
La paura appartiene a questa seconda categoria, insieme per esempio alla malinconia, alla depressione, allo scoramento. Ma, mentre questi ultimi sono atteggiamenti che esprimono tristezza, dolore, distacco dal mondo e sono quindi chiusi nell’intimo mondo dell’individuo, la paura è invece un atteggiamento sociale, un atteggiamento pervasivo, diffusivo di sé stesso
Diversi sono anche gli antidoti. Dove li si cerca? Nell’accettazione del presente, per la malinconia; negli antidepressivi, per la depressione; nelle sostanze eccitanti, per lo scoramento. L’antidoto alla paura si cerca in qualche forza che promette protezione.
La paura è dunque un fattore politico. E perfino superfluo notare che dal sentimento di paura nasce l’investitura sentimentale della mano forte, dell’uomo forzuto al quale delegare la repressione dei veri o presunti portatori dei germi da cui nasce la paura. I capri espiatori delle proprie fragilità e insicurezze nascono così.
Non c’è solo la psicologia delle masse, così bene illustrata nella Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni a spiegare la proporzione: tanta più paura, tanta più pulsione aggressiva.
La paura è sempre stata un ingrediente, una delle “molle” delle involuzioni antidemocratiche. Gli esempi storici, antichi si potrebbero sprecare e quelli attuali sono sotto gli occhi di tutti coloro che non fanno finta di niente. La spaventosa e spaventata aggressività che s’aggira nella società si mostra spudoratamente nelle conversazioni, nelle strade, nelle piazze,nei posti di lavoro, nelle parole e negli scritti, su tutti i cosiddetti mezzi di comunicazione di massa, e viene giustificata e perfino magnificata come contraltare dell’ipocrita “politicamente corretto”.
Questa è la melma su cui cresce una certa politica e su cui crescono certi politici. La paura è, infatti, uno dei due massimi sentimenti che muovono i politici e le loro politiche.
L’assolutismo politico moderno è nato ed è stato teorizzato in un’epoca di massima insicurezza, precisamente come il massimo garante della sicurezza. Lo Stato assoluto era tale in quanto detentore del monopolio della paura e tale monopolio si denominava “sovranità”.
Dopo avere detto che la paura è un ingrediente politico pericoloso che, a sua volta, deve fare paura, non ci si può limitare alla denuncia. La paura, quali che ne siano gli usi politici, è comunque una forza, un dato della realtà con il quale occorre fare i conti, un fenomeno al quale una politica democratica deve contrapporre forze di contrasto.
Poiché la paura è un sentimento che non sente ragione, non le si possono utilmente contrapporre ragionamenti. Sentimenti e ragionamenti appartengono a due sfere di esperienze diverse. Prendiamo, come esempio, il caso delle politiche di discriminazione nei confronti dei migranti e in genere delle minoranze che si differenziano per qualche aspetto da quella che si auto-definisce normalità. Si ha un bello smentire con i numeri la paura dell’invasione e della “sostituzione etnica”. Questi argomenti di ragione non scalfiscono in alcun modo il pregiudizio emotivo.
Oppure, si possono portare evidenze scientifiche circa l’efficacia di alcuni vaccini e ciò non incide su chi nutre timori d’essere vittima di Big Pharma. Si possono portare argomenti di fatto sul funzionamento dei mercati finanziari, ma non si sconfigge così la sensazione d’essere vittime di un complotto anti-italiano.
La paura che si nutre di nazionalismo (“prima gli italiani”), di complottismo (le “oscure potenze” che governano il mondo), di vittimismo (ci vogliono male perché sono invidiosi della nostra “italianità”) non si combatte esclusivamente con la ragione, per il semplice motivo che i suoi argomenti non appartengono alla sfera razionale.
Non basta provare a dire: la vostra paura è ingiustificata, perché la risposta è: io ho paura lo stesso, tanto più in quanto si viva in un ambiente in cui la politica, la cultura, l’informazione sembrano alleate nel diffondere incertezza, insicurezza.
La paura, abbiamo visto, è un sentimento passivo. Per contrastarla, occorre alimentare sentimenti attivi. L’opposto della paura è il coraggio, il secondo ingrediente della politica. Se c’è troppa paura, è perché c’è troppo poco coraggio. La Repubblica fondata sulla paura o la Repubblica fondata sul coraggio equivale all’alternativa tra Repubblica autoritaria e Repubblica democratica.
Ci sono momenti nella storia dei popoli in cui è sufficiente vivere in quel limbo in cui s’incontrano la non paura e il non coraggio. Sono i momenti di vita ordinaria. Ma il nostro non è, evidentemente, un momento ordinario. Se le considerazioni che precedono meritassero qualche considerazione, ne potrebbe venire un’indicazione per un’azione politica non gregaria e coraggiosa, non limitata alla denuncia dell’uso politico della paura che ne fanno gli avversari.
Per esempio, sulla politica nei confronti dell’emigrazione, perché agire solo in una difesa perdente e non lanciare parole d’ordine generose che indichino prospettive di integrazione positive per tutti? Sulla politica del lavoro, perché si inseguono le statistiche per dimostrare che il trionfalismo non è giustificato e perché non si lanciano idee equamente distributive del “monte-lavoro” umano, che è destinato a ridursi, e della ricchezza, che invece è spaventosamente crescente e concentrata?
Quanto alla sanità dell’ambiente e dell’alimentazione, perché non si promuovono le buone pratiche che possono coinvolgere forze spontanee dei cittadini consapevoli, senza paura di indicare nuovi e sobri stili di vita? Quanto alla cultura, perché non si prova a diffondere, invece dell’istupidimento, il benessere che può dare? Quanto alla destinazione delle risorse pubbliche, perché non si promuove una partecipazione dei cittadini circa la scala delle priorità, per esempio a difesa dei diritti sociali che finiscono per essere sacrificati, quando occorre denaro per altri scopi? Di questo genere potrebbero essere le politiche coraggiose.
Tutto ciò e molto altro non sarebbe una riscoperta della politica, al posto della mera gestione passiva dell’esistente che ne allontana i cittadini e, innanzitutto, le giovani generazioni tra le quali cresce il bisogno di motivazioni ideali?
Quando si dice, soprattutto da parte dei partiti della sinistra, che occorre ricostruire un rapporto tra elettori ed eletti, che occorre ricominciare a parlare alla gente avendo in mano una proposta; quando si dice che occorre preoccuparsi di quel deposito, cresciuto oltre la misura fisiologica, di elettori sfiduciati che credono non ci sia più ragione di partecipare; quando ci si convincesse che l’accantonamento delle ragioni ideali è mortifero per la democrazia; quando ci si ripromettesse di governare e orientare secondo principi e valori; quando tutto questo accadesse, non sarebbe l’ora in cui il principio-paura potrebbe iniziare a indietreggiare di fronte al principio-coraggio?
E la speranza non potrebbe, come nei momenti più fecondi della nostra vita nazionale non certo più facili dell’attuale, ricominciare a animare questa nostra esausta democrazia?
Gustavo Zagrebelsky La Repubblica 8 giugno 2019
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