Gli insulti urlati sulla banchina a Lampedusa a Carola Rackete sono rimbalzati contro il suo volto sereno, non hanno scalfito quella compostezza data dalla consapevolezza di aver messo il proprio corpo a disposizione della propria responsabilità, cosa non scontata. Non scontata, in un Paese in cui il ministro dell’Interno, spaventato da un’eventuale condanna, si è sottratto al processo per sequestro di persona nel caso Diciotti facendosi salvare dalla sua maggioranza.
Ma torniamo agli insulti. Sono stati abbastanza prevedibili. Nella parte non censurata di video che è stata postata, leghisti e grillini lampedusani urlano contro Carola: «Spero che ti violentino ‘sti negri, a quattro a quattro te lo devono infilare». E ancora: «Ti piace il cazzo negro». La dinamica è tipica: da un lato il sesso visto come aberrazione, insulto, porcheria, vizio, e dall’altro il senso di inferiorità che qualcuno ha in questo campo verso l’africano.
Per quanto possa sbalordire, uno dei motivi principali del razzismo verso gli immigrati africani è proprio la minaccia sessuale: è stato cosi negli Stati Uniti ed è così in Europa. Tutta la retorica razzista di Salvini sugli immigrati furbi invasori perché arrivano con corpi atletici e non sono scheletri affamati, nasconde un evidente complesso di inferiorità.
Il «ti devono violentare» viene dalla bocca degli stessi che blaterano di violenza carnale ogni volta che discutono di immigrazione ciarlando con crassa ignoranza di mafia nigeriana, della quale non sanno nulla. Nel video spunta a un certo punto una voce tenue che dice: «Piccio’, non parlate accussi». È una donna, e si sta vergognando. È interessante capire come il leader di questi balordi abbia intenzione di commentare l’accaduto e che provvedimenti intenda prendere nei loro confronti.
Chissà se questi miserabili sono coscienti che i leghisti del Nord usavano gli stessi insulti contro le persone che cercavano di difendere i meridionali. La cantilena allora era: «Li difendi perché ti piace scopare con i terroni». Che rabbia deve generare in un leghista una donna giovane in grado di fare una scelta cosi forte, in grado di gestire una tale situazione con nervi saldi e con dichiarazioni piene di responsabilità, una donna in grado di vivere la propria vita con autonomia, che non viene definita in quanto fidanzata di, moglie di, amante di.
Ecco, una donna così per i leghisti deve essere insopportabile anche solo da immaginare. Ed è naturale che insultare una donna attraverso il sesso sia la cosa più scontata e facile per vomitare la propria frustrazione. Ma c’è una seconda parte degli insulti che raccontano bene il Paese. A urlare «le manette» e «venduta» è l’Italia forcaiola che conosco benissimo; l’Italia che sputa su Enzo Tortora perché se non puoi essere Enzo Tortora è un bene che lui cada e ti faccia sentire meno mediocre; l’Italia che lancia le monetine su Craxi avendolo temuto e blandito fino a un minuto prima (poco importa in queste dinamiche l’innocenza o la colpevolezza, ma conta il grado di frustrazione e di meschinità); che parteggia a favore o contro Raffaele Sollecito e Amanda Knox; che esulta per ogni arresto, per ogni avviso di garanzia, come se facesse sentire meno tollerabile la propria sofferenza.
Se la giustizia che pretende, tempo, pacatezza e responsabilità è impossibile, allora meglio tifare per le disgrazie altrui, cosa che non mitigherà le proprie ma almeno servirà a sfogarsi.
Io sono cresciuto in un Sud Italia in cui, quando veniva arrestato un boss, la gente applaudiva il criminale e insultava i carabinieri. Guardate su YouTube il video di Antonino Monteleone che ha ripreso l’arresto del boss Giovanni Tegano a Reggio Calabria: c’era una fitta folla fuori dalla questura ad inneggiarlo. Non solo parenti ma anche semplici concittadini grati per la sua strategia contraria agli atti sanguinari. Quando venne arrestato Cosimo di Lauro a Secondigliano, centinaia di persone lo applaudirono e difesero.
In fondo è così, è il prezzo del sopravvivere: piegarsi al potente, temere la sua vendetta, blandirlo, sperare in una sua parola per poter cambiare la propria vita. Al contrario, è facile colpire Carola, non ti succede niente se lo fai, stai sputando addosso a una donna che ha solo il suo corpo e la sua dignità come simbolo e difesa. Non ti toglierà il lavoro, non verrà a minacciarti, non c’è nessun favore che potrai chiederle.
Carola non poteva che agire in questo modo: sbarcare a Malta, in Grecia o in Spagna significava compiere un atto fuorilegge, perché Lampedusa era molto più vicina e ciò rispondeva all’esigenza di mettere in sicurezza l’equipaggio. Se avesse deciso di andare verso altri porti, avrebbe messo in pericolo le persone salvate in mare violando la legge del mare. Urlano «venduta», ma Carola ha scelto di impegnarsi mettendo le sue competenze al servizio di un “ambulanza del mare” ed è una donna che prende onestamente il suo stipendio, più vicino a un rimborso spese che a un lauto guadagno.
È incredibile che tutto questo venga detto da un partito come la Lega, che non ha mai spiegato perché è andata a trattare con un’impresa di Stato russa per farsi finanziare la campagna elettorale; in un Paese dove il ministro dell’Interno finanziava post razzisti su Facebook con 5000 euro (500 quelli in cui annuncia i suoi comizi).
In un Paese così, si dà addosso a una persona che salva con il proprio impegno dei disperati dall’agonia e si difende, invece, chi non mostra la minima trasparenza e chi ha alleanze torbide e partner politici criminali.
Il meccanismo è sempre lo stesso: se sei un bandito non puoi convincere gli altri che tu non lo sia, puoi però cercare di far credere che tutti gli altri siano peggio dite. Ecco il gioco sporco di Matteo Salvini e dei leghisti con Carola. Ascoltate quegli insulti perché lì c’è tutto il cuore marcio del nostro Paese. Bisogna capire da che parte stare.
Con chi volete stare? Con chi chiede manette per chi ha salvato vite? Con chi augura a una donna una violenza carnale? Da che parte volete stare? Con questi insultatori o con chi considera la libertà e la solidarietà l’unica dimensione in cui vale la pena di vivere?
Roberto Saviano La Repubblica 30 giugno 2019
Nessun vincitore. Tutti perdenti
A ben vedere, la notizia più importante non è quella dell’arresto della comandante Carola Rackete, bensì le parole del ministro degli Esteri, Moavero Milanesi: «La Libia non è un porto sicuro». Se quella affermazione fosse stata fatta l’anno scorso, il nostro Paese si sarebbe risparmiato molte lacerazioni e altrettante sofferenze. E, infatti, il giudizio sulle condizioni di sicurezza della Libia è all’origine della vicenda conclusasi all’alba di sabato, tra gli osceni schiamazzi di coloro che Eugenio Montale definì i “miti carnefici” (qui un manipolo di furfanti leghisti che invocavano lo stupro della comandante) e la lunga teoria di profughi che attraversavano un cordone di poliziotti per raggiungere il furgone che li avrebbe portati fuori dallo sguardo pubblico.
Da anni, in Libia, dove è in atto una spaventosa guerra civile, si è sviluppato un apparato militare e paramilitare che amministra la tratta degli esseri umani, in un unico circuito per l’acquisto e la vendita, la reclusione e la tortura, il passaggio in mare e il ritorno coatto di una moltitudine di infelici. Il cuore di questo sistema concentrazionario, gestito da milizie che svolgono i diversi ruoli, da quello di rapitori a quello di scafisti, è costituito dai centri di detenzione diffusi sul territorio.
Negli ultimi tempi la grande parte di coloro che tentano la traversata del Mediterraneo sono fuggiti da quei centri, scampati alla schiavitù e alla morte. II primo fine perseguito dalle Ong del mare è stato ed è quello di impedire che lì siano riportati. Non opporsi a che questo accada rappresenta, come afferma uno dei più autorevoli giuristi europei, Luigi Ferrajoli, una «flagrante omissione di soccorso». Senza giustificazione alcuna, perché Malta continua ad accogliere un numero di profughi percentualmente assai elevato rispetto alla superficie del territorio. E l’altra meta indicata come possibile, la Tunisia, è tutto tranne che agevole. Mentre la Sea-Watch 3 si dirigeva verso l’Italia, le autorità tunisine trattenevano per 19 giorni, prima di consentire lo sbarco, un mercantile con 75 profughi.
Dunque, secondo i causidici cultori dei codici nautici, la Sea-Watch 3 si sarebbe dovuta mettere in fila al porto di Tunisi odi Zarzis, in attesa del permesso di approdo da parte del governo di un Paese dove non è previsto il diritto di asilo. E questo dice in maniera inequivocabile come fosse cogente il dovere della Sea-Watch (sì, il dovere) di fare rotta verso l’Italia.
Ancora. Come sappiamo, già nella mattinata di venerdì si era giunti a un passo da un accordo, grazie alla disponibilità di alcuni Paesi europei, ma a questo punto lo scontro si è spostato tutto all’interno del governo italiano. Il ministro Salvini si ostinava a negare lo sbarco, ignorando l’offerta dei Paesi europei, così come già aveva ignorato quella della municipalità di Rottenburg e quella delle chiese protestanti tedesche e della chiesa Valdese italiana.
II ministro ha puntato sull’incidente e questo, alla fine, è arrivato. A causa dell’ingenuità della comandante Rackete che, e c’è da capirla, faticava a decifrare le complicate mosse della politica italiana ed europea, concentrata com’era sul senso della propria missione: salvare vite umane. Quanto, poi, è seguito, tutto è tranne che una vittoria del governo italiano.
La meschina ordalia messa in scena dalle tricoteuses del sovranismo sul porto di Lampedusa, i reiterati insulti di Matteo Salvini (ma a quale lutulento vocabolario attinge quest’uomo iracondo?), la furia dei social rappresentano un ulteriore passo verso uno «stile paranoico di governo» (Richard Hofstadter).
E costituiscono altrettante lesioni per il nostro sistema democratico e per il suo dibattito pubblico: si perde di vista la questione di fondo (il soccorso a uomini, donne e bambini) e tutto viene ridotto a una povera tragicommedia.
Infine. Da più parti si vuole interpretare l’attuale conflitto quasi fosse uno scontro tra ragioni del cuore e ragion di Stato. Nulla di più sbagliato. La controversia è tra un’interpretazione gretta e discriminatoria delle leggi nazionali, piegate a un uso sciovinista, e il diritto internazionale e il sistema universale dei diritti umani.
Questi ultimi sono fondati su una concezione razionale e, per così dire, “utilitaristica” dei rapporti tra gli individui, i popoli e gli Stati. Altro che “buonismo” (Dio perdoni chi ha inventato questo termine sciagurato): qui è in gioco piuttosto l’interesse delle comunità a vivere in un mondo, sempre più integrato e “stretto”, che chiede di essere governato da leggi condivise, e da convenzioni destinate a favorire inclusione e convivenza. Pena la rovina di tutti.
Luigi Manconi La Repubblica 30 giugno 2019
Se soccorrere diventa reato
Povera Italia, povera Europa, povera legalità e povera la nostra anima. Mentre infuria la battaglia delle parole sull’approdo drammatico della “Sea Watch 3” a Lampedusa e mentre il ferro e il fuoco delle recriminazioni, delle invettive, delle maledizioni e delle bestemmie incendiano persino il mare, si gonfiano e crescono lo strazio, l’umiliazione e la fatica a trattenere il pianto.
Non c’è ragione e non ci sono ragioni che spieghino e comprendano ciò che nella notte del 29 giugno 2019, notte dei santi Pietro e Paolo, è potuto accadere nel porto di quell’isola immersa nel Mediterraneo e che un po’ tutti negli anni – grazie alla generosità della sua gente e alla salda testimonianza della sua Chiesa – abbiamo imparato ad ammirare, amare e a chiamare “speranza”. Non c’è ragione e non ci sono ragioni che aiutino a capire perché una nave con a bordo 40 naufraghi abbia dovuto rischiare la collisione con la nave militare di una nazione come la nostra, che grazie alla sua civiltà – e ai valori che ha scolpito in Costituzione e nei Trattati e nelle Convenzioni che ha firmato e, prima ancora, ha contribuito a scrivere – ha saputo affermare e condividere con gran parte del mondo quei principi umanitari che dovrebbero dare luce e profondità alle regole immaginate per rendere il mondo stesso un posto sempre più accogliente e giusto per gli esseri umani. Soprattutto per i più poveri e i più deboli.
Non c’è ragione e non ci sono ragioni, decenti e serie, che spieghino perché proprio quei 40 profughi dalla Libia «posto non sicuro», parola dell’Onu ma anche del nostro Governo, non dovessero mettere piede in Italia dove solo nell’ultimo mese almeno altre 500 persone sono approdate irregolarmente via mare e migliaia e migliaia via cielo e via terra. L’unico motivo, né serio né decente, potrebbe essere che quelle persone, tenute forzatamente in mare per più di due settimane, dopo mesi e mesi nei disumani centri libici di detenzione degli stranieri in transito, sono state tratte in salvo da un’imbarcazione “non governativa”, cioè messa in acqua da un’associazione di volontariato.
Ma in realtà la spiegazione non regge, perché in questi mesi lo stesso trattamento è stato riservato a persone salvate da navi italiane e addirittura da navi militari italiane. Semplicemente, incomprensibilmente, la logica – per nulla logica – sembra diventata che chi scampa a un naufragio e viene raccolto in mare non può approdare, chi naviga, non fa naufragio e arriva sino alle nostre coste invece, in qualche modo, sl. Il discrimine è dunque il soccorso.
Si sta cercando di affermare definitivamente, nell’acquiescenza opaca dell’Europa dei grandi discorsi e dei piccoli egoismi e di un’opinione pubblica italiana e continentale che assiste a tutto questo con modesta sorpresa e insufficiente comprensione e indignazione, un principio negativo.
Che riguarda i migranti come i bambini non nati, i poveri di tutto come i vecchi troppo vecchi e malandati per essere considerati titolari di una vita degna. Un principio negativo che capovolge il codice valoriale che, pure, sta alla base del nostro umanesimo e distorce persino lo sguardo cristiano sulla vita propria e degli altri. Se il soccorso è reato, chi s’impegna per salvare vite, in realtà le sta dannando. Chi tende la mano per aiutare, sta marchiando l’altro. Chi fa il bene, in realtà fa male…
Tutto ciò giustifica un approdo forzato e arrischiato come quello deciso dalla capitana della “Sea Watch 3” Carola Rackete? No, non lo giustifica. A prima, e anche a seconda, vista non lo giustifica. Forse ci vorrà, se basterà una terza vista. Anzi, una vista terza. Quella, appunto, di un’autorità terza: un giudice che dovrà giudicare in forza delle norme italiane e internazionali (senza le loro interpretazioni “social“) e valutando i fatti nudi e crudi (senza le armature polemiche che vengono loro imposte).
Per intanto, però, di buono c’è l’approdo sicuro ed europeo ottenuto per persone inermi e colpevoli solo di emigrazione dalle vie d’Africa. Dovrebbe essere un evento considerato buono da chiunque abbia testa e cuore e anima “funzionanti”. Da chiunque intenda la portata di quel capovolgimento del codice di valori umani di cui s’è appena scritto, quel codice che deve continuare a dirci che la legge serve senza arbitri la vita e mai la vita di nessuno deve essere assoggettata a un’algida e arbitraria legalità. Quel codice che precede le leggi e può persino spiegare ciò che appare ingiustificabile.
Può persino dirci perché una marinaia ha scelto di caricarsi sulle spalle tutta o quasi l’illegalita sino a quel momento scaricata addosso ai povericristi che aveva raccolto in mare aperto. Può farci capire almeno un po’ quel drammatico e sconcertante fatto di mare e di porto, di illegalità e di umanità, che è avvenuto nella notte dei santi Pietro e Paolo a Lampedusa, Italia, e per cui la capitana Rackete, pur non rinnegando la scelta fatta, ha chiesto scusa ai marinai in divisa delle nostre Fiamme Gialle. Capire, ammesso che lo si voglia fare, però non basta. Non basta più.
Perché povero è il Paese dove naufraghi senz’altro bagaglio che la propria pelle sono dichiarati nemici e chi li salva è trattato da fuorilegge e da fuorilegge si ritrova ad agire. Povero è il Paese dove i guardiani della legge sono costretti non a difendere i più deboli ma a difendere se stessi da un rischio grave e diventano scudo dei più forti. Povero è il Paese dove legge fa a pugni con la Legge, e il diritto si converte nel rovescio della morale. E poveri siamo noi. Come siamo potuti arrivare sin qui? E come possiamo rassegnarci?
Editoriale Avvenire 30 giugno 2019
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