Cosi il direttore d’orchestra trasformò Mani pulite in un processo di piazza.
Francesco Saverio Borrelli aveva trascorso discosto i primi sessantadue anni di vita e i primi mesi di Mani pulite. Il padre, pure magistrato, era stato ufficiale di cavalleria di indole dannunziana. Magistrato fu il nonno, e Francesco Saverio era cresciuto in una raffìnata famiglia napoletana in cui i genitori si intrattenevano in francese, soprattutto se non volevano farsi intendere dalla servitù e dai figli. Era diplomato al conservatorio.
Amava sommamente Richard Wagner e Modest Musorgskij, di cui la sua interpretazione al pianoforte di Una notte sul Monte Calvo garantiscono fosse ottima. Ogni Sant’Ambrogio, elegantissimo, si presentava alla prima della Scala e ancora più elegante montava la cavalla Rosemary, monta inglese, naturalmente, guanti, stivali con lo sperone, basco spigato. Si può immaginare quale attrattiva esercitasse in lui quel simpatico villereccio di Antonio Di Pietro, quando il 17 febbraio 1992 arrestò Mario Chiesa, presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio, avviando la demolizione della Prima repubblica. Borrelli se ne restò nella sua nobile borbonica distanza.
Il tumulto
Tre mesi più tardi ne uscì e si gettò nel tumulto in sella a Di Pietro. «L’inchiesta è cresciuta grazie a un clima nuovo e particolarmente favorevole dovuto soprattutto alla sensazione di stanchezza se non addirittura di nausea diffusa nella collettività di fronte all’occupazione sistematica e predatoria di alcuni settori pubblici da parte di ambienti politici», disse nel maggio 1992 in un’intervista a Chiara Beria di Argentine per l’Espresso.
Il raffinato giurista, laureato con Piero Calamandrei, né circoscriveva la fattispecie di reato, né dettagliava la funzione giurisdizionale: stava già pronunciando l’arringa del processo di piazza. Colpevole un intero sistema, giudice un intero popolo. Questa fu l’essenza politica e rivoluzionaria, così poco costituzionale, dell’inchiesta Mani pulite.
Un anno e mezzo più tardi, a fine 1993, i partiti e le tradizioni (democristiana, socialista, socialdemocratica, liberale, repubblicana) che avevano retto il governo per mezzo secolo, che avevano scritto la Costituzione antifascista, che avevano tenuto una pratica democratica, atlantica e anticomunista, in definitiva antitotalitaria, erano stati dichiarati corrotti al nord e mafiosi al sud. Spazzati via. E lì Borrelli chiuse il cerchio: “Il grande processo pubblico è già avvenuto”.
Lui, il procuratore, e i suoi sostituti del pool Mani pulite, Gerardo D’Ambrosio, Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, erano diventati delle popstar, invitati ai convegni e fotografati per i rotocalchi.
Borrelli seppe coniugare la passione per il diritto e quella per la musica in una biografia autorizzata in cui compariva sorridente e molto autocompiaciuto in copertina, il codice penale in una mano e la bacchetta di direttore d’orchestra nell’altra. Quello era il titolo : il direttore d’orchestra.
Il ruolo lo autorizzava a delineare il sacrificio ultimo a cui era disposto il gruppo di magistrati che aveva ripulito l’Italia dal Male: «Potremmo rispondere con un servizio di complemento». E cioè, se venisse giù tutto (era venuto giù tutto) e se restasse in piedi soltanto la presidenza della Repubblica (non ci si era lontani), allora «potremmo rispondere con un servizio di complemento». Allora, traduzione fedele, potremmo governare noi.
Ovviamente non era un complotto, non era l’ambizione di partenza, era semplicemente la legge fondamentale della politica: un potere per sua natura tende a espandersi. E il potere della procura di Milano si era espanso al punto che aveva soffocato quello politico, non soltanto aveva polverizzato la Prima repubblica ma teneva per la collottola la Seconda, e con un comunicato di poche decine di secondi letto in favore di telecamera era in grado di cancellare leggi, come quella che limitava la carcerazione preventiva.
Lo spettacolo
Fu uno spettacolo orribile. Il nostro sembrava un paese di cherubini, i magistrati che arrestavano, i giornalisti che ne scrivevano l’epica, i leader di opposizione sedicenti onesti che finalmente sapevano perché erano stati tenuti ai margini (comunisti e fascisti essenzialmente), gli imprenditori che si dichiaravano taglieggiati, il popolo derubato, sessanta milioni di brutalizzatì da un pugno di politici a cui dare la caccia.
E dopo il linciaggio sarebbe stata la nuova Liberazione e la nuova età dell’oro.
E se necessario, solo se strettamente necessario, lassù in alto ci sarebbe stato il migliore fra noi migliori: Francesco Saverio Borrelli.
Con presupposti del genere , in picchiata lungo la discesa della Seconda repubblica, non si poteva finire che qui, dove siamo finiti, nel populismo rancoroso salito a palazzo. E non poteva che finire con Borrelli, in pensione e ormai disilluso: «Non valeva la pena buttare all’aria il mondo precedente per cascare in questo». No, non valeva la pena, visto che il risultato era già scritto nella premessa: il processo di piazza.
Mattia Feltri La Stampa 21/7/2019
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