Alla fine la spina del governo potrebbe averla staccata Matteo Salvini. Il Jep Gambardella della politica non voleva solo partecipare ai governi, voleva avere il potere di farli fallire. Ieri è stata una giornata di frenetiche riunioni, un viavai agitato tra Palazzo Chigi e il Quirinale. Tutti, però, conoscevano l’esito finale, ufficializzato alle 19:53 da una nota della Lega in cui si legge: “Non c’è più una maggioranza”. Consapevole di viaggiare a vele spiegate verso il 40% dei consensi, Salvini è pronto al voto di ottobre – approvazione di Mattarella permettendo – e a porre fine a quello che verrà ricordato come uno dei peggiori governi della storia repubblicana. In attesa del prossimo.

In serata, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha avuto un sussulto d’orgoglio nei confronti di Salvini, e gli ha spiegato la differenza tra lavorare e passare il tempo in spiaggia a bere mojito. La compostezza e l’eleganza del suo discorso finale non cancellano però mesi di impotenza di fronte ai capricci leghisti, soprattutto perché – pur essendo probabilmente il meno colpevole tra i protagonisti dell’ultimo esecutivo – Conte sarà comunque ricordato come il presidente del Consiglio di un  governo che ha partorito leggi disumane e in aperta violazione dei diritti umani.

Di fronte alla tardiva presa di coscienza di Conte, Luigi Di Maio e i piani alti del M5S hanno dimostrato anche in questa occasione la loro miopia politica, ignorando la fine dell’epoca degli slogan e persino, sembra, del loro governo.

Di Maio, come da suo protocollo, si è affidato a un post su Facebook per commentare la possibile morte della sua stessa creatura. Il risultato è stato un messaggio adatto a un partito d’opposizione in campagna elettorale, più che un chiarimento con il suo alleato di governo e con gli italiani.

Ma, in effetti, il problema del M5S è sempre stato questo: non essersi accorto di essere parte dell’esecutivo – e per giunta come socio di maggioranza. Il leader grillino ha parlato del taglio delle poltrone dei parlamentari, invitando il governo a votare questo provvedimento prima dell’eventuale scioglimento delle Camere. Una richiesta grottesca da parte di chi, pur di salvare la sua poltrona, in questi mesi si è svenduto alla Lega, votando fino al 5 agosto scorso leggi in contrasto con la nostra Costituzione e in aperta contraddizione con le promesse della sua campagna elettorale.

Il messaggio scelto da Di Maio per parlare alla sua base –  Salvini che fa cadere il governo adesso perché ha paura dei tagli dei parlamentari – è perdipiù il classico esempio di chi non ha il polso della situazione politica e si gioca l’ultima carta per rabbonire i suoi elettori dimezzati.

La verità sulle tempistiche di questa crisi di governo è la stessa tanto per la Lega quanto per il M5S: vogliono evitare la responsabilità della manovra finanziaria. Questa conclusione prevedibile solleverebbe i due partiti dal rischio di doversi giustificare con i cittadini per l’imminente aumento dell’Iva e tutte le altre misure “lacrime e sangue” che si dovessero rendere necessarie. Lasceranno l’incombenza a qualche tecnico da bersagliare durante la campagna elettorale e indicare agli elettori come responsabile di tutti i mali.

Quello che però non sanno, o fingono di non sapere, è che dovrebbero ugualmente dare delle risposte agli italiani, perché il bilancio della loro esperienza parla chiaro: hanno preso una nazione con l’economia in crescita e l’hanno portata alla stagnazione.

Il Pil, che sotto il governo Gentiloni era arrivato a una crescita dell’1,6%, con il governo gialloverde è crollato allo 0,1%; la produzione industriale è sprofondata, mentre lo spread è calato soltanto dopo aver obbedito alle normative europee sul debito, dopo mesi di battaglie utili soltanto a fingere un potere inesistente del governo in Europa – e che peraltro hanno mandato in fumo miliardi di euro.

Nonostante i proclami, da spiagge o balconi, il Jobs Act e la Legge Fornero non sono stati ancora cancellati, il debito pubblico è aumentato, la pressione fiscale è schizzata a quote che non si toccavano dal 2015 e sono calati  i consumi e il reddito disponibile delle famiglie. L’unica crescita registrata, quella dell’occupazione, è relativa perché riguarda un dato falsato da diversi fattori e in sostanza sbagliato: se aumenta la cassa integrazione e diminuiscono le ore lavorative vuol dire semplicemente che aumentano i lavoretti stagionali o part-time e che alle aziende non conviene assumere nuovi dipendenti in modo stabile e duraturo. Non si sa se questo merito o colpa sia da attribuire al Jobs Act o al Decreto Dignità: l’unica certezza è che con entrambe le misure l’Italia è ancora lontana da una soluzione efficace sul lavoro.

Con tutti i principali indicatori economici che mostrano una flessione si può dire ufficialmente che il governo del cambiamento è riuscito a peggiorare le condizioni dell’economia italiana. Nei prossimi mesi il M5S farà l’impossibile per dimostrare il contrario, ma i dati parlano più chiaro di qualsiasi discorso da comizio.

Salvini, invece, non farà nulla per smentire queste cifre, e ne addosserà tutta la responsabilità al Ministero del Lavoro e dello Sviluppo economico dell’ex alleato di governo. Potrà permetterselo perché in questi mesi Salvini ha imboccato la strada facile: martellare gli elettori per un anno con la narrazione sull’invasione dei migranti e intervenire su qualunque argomento di attualità, anche se non di competenza del Viminale, senza occuparsi dei reali problemi del Paese. Il leader della Lega baserà il futuro della sua comunicazione sull’estraneità ai risultati economici dello stesso governo di cui ha fatto parte per un anno.

Il bilancio dell’esecutivo si aggrava poi se si considera il clima sociale che è riuscito a creare. Sdoganare gli istinti più aggressivi del popolo e legittimare la xenofobia, infatti, non ha fatto altro che generare una bolla d’odio nella quale molti italiani sembrano essere perfettamente a loro agio.

Se il razzismo intrinseco della politica di Salvini è sempre stato esplicito, quello del M5S ha richiesto più tempo per manifestarsi alla luce del sole. Eppure, è stato proprio Di Maio il primo a definire le Ong i “taxi del mare”, e sempre lui ha appoggiato il voto di due decreti sicurezza e della legge sulla legittima difesa, oltre ad aver legittimato la presenza al governo di esponenti reazionari come Simone Pillon e Lorenzo Fontana.

Avere un presidente della Camera come Roberto Fico che ogni tanto esprime il suo dissenso su Facebook non basta per assolvere l’operato del partito di cui fa parte. Entrambe le forze politiche saranno ricordate per aver alzato l’asticella della disumanità e della ferocia di questo Paese contro le minoranze, come mai era successo nel secondo dopoguerra.

Adesso si aprono scenari inquietanti, che pagheranno gli italiani con instabilità, scarso credito dai mercati e dall’Europa e una manovra finanziaria da realizzare alla cieca per sistemare i conti dopo le “mancette” elettorali dei gialloverdi. Salvini, coadiuvato da Giorgia Meloni, trionferà alle prossime elezioni, e il ruolo di capo del governo che ha già interpretato de facto sarà ufficializzato nei prossimi mesi.

Sarà interessante vedere con quale scusa il M5S tornerà nelle piazze per una campagna elettorale contro il leader leghista, dopo averlo salvato da un processio e appoggiato in ogni sua iniziativa.

È una mancanza di credibilità che nemmeno i vaffanculo sul web e il ritorno di Grillo e Di Battista potranno curare. All’inizio dell’esperienza di governo sapevano di doversi impegnare per far digerire l’alleanza con la Lega a una parte del loro elettorato. Ci sono riusciti così bene da rendere gran parte dei loro elettori dei salviniani convinti.

In poco più di un anno, del M5S restano solo le macerie. Tav, Tap, Ilva, secondo mandato, F35, immunità parlamentare: i loro pilastri sono crollati uno dopo l’altro, insieme al loro ruolo di “cittadini” arrivati in Parlamento per risolvere le storture di decenni di malapolitica.

Tenteranno di far passare il messaggio di aver fatto approvare più leggi dei leghisti, anche se molte sono pessime. Il reddito di cittadinanza è un esempio significativo: del tutto diverso rispetto alle promesse della campagna elettorale, per adesso è solo una confusa elemosina, con i navigator che non hanno nemmeno iniziato a lavorare e la quota delle tre proposte di lavoro per disoccupato che appare come una chimera irrealizzabile.

Salvini ha la strada spianata per il prosieguo della campagna elettorale che porta avanti da prima dell’insediamento di questo governo, ma si ritroverà a comandare da solo, senza il M5S da usare come parafulmine. Dovrà mettere le mani sull’economia, risollevare un Paese che non cresce e fare i conti con le questioni europee assumendosene finalmente la responsabilità in prima persona. Possibilmente presentandosi alle riunioni, almeno da presidente del Consiglio, visto che da ministro dell’Interno e da europarlamentare ha anteposto impegni più urgenti come l’ospitata da Barbara D’urso.

L’elettorato, nutrito dalla comunicazione di Salvini, è diventato mutevole per non dire isterico nelle sue decisioni: un giorno ti fa assaporare la gloria per poi declassarti a politico indesiderato nell’arco di pochi mesi, come accaduto a un un altro Matteo un paio di anni fa.

Giunti al tramonto di questa esperienza grottesca, più che tirare le somme c’è da indossare l’elmetto per proteggersi da un futuro ancor più incerto e preoccupante. Un Salvini con pieni poteri significa ulteriore inasprimento dei conflitti sociali, in un’Italia che assomiglierà sempre di più all’ Ungheria di Victor Orban, un leader che il capo della Lega ha spesso citato come sua fonte di ispirazione.

Il timore è che questa breve Terza Repubblica sia stata soltanto il preludio a qualcosa che ancora non osiamo immaginare. Ne abbiamo avuto un’anteprima con la diffusione capillare dell’odio degli ultimi mesi, ma potrebbe peggiorare.

Se siamo arrivati a sperare nei tecnici invece che nella politica, come accaduto con Mario Draghi o Carlo Cottarelli, per scongiurare l’invasione che davvero fa paura – quella di Salvini – vuol dire che il Paese ha qualcosa che non va. Abbiamo visto “terroni” trasformarsi in leghisti, operai sperare nella flat tax e un movimento di politici improvvisati arrivare al potere grazie al web per poi regalare l’Italia al primo governo populista e xenofobo dell’Europa occidentale degli ultimi 70 anni.

Siamo molto lontani dal vivere in una nazione che può considerarsi una democrazia sana. L’ultimo governo ha ereditato una situazione già seriamente compromessa, ma non ha fatto nulla per trovare una soluzione a una crisi economica, sociale e istituzionale che può portarci sull’orlo del baratro. Se davvero andremo a votare a ottobre, sarà bene fare uno sforzo di memoria e ricordarselo molto bene.

Mattia Madonia         in The Vision 9 agosto 2019

 

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