Il viaggio della memoria come cammino di conoscenze che attraversa l’anno scolastico: inizia tra i banchi di scuola per muoversi tra letture, documenti, corsi di formazione, coinvolgendo docenti e studenti ormai da anni in tanti angoli della penisola.
Aerei, treni o pullman che si muovono verso territori dell’Europa centro-orientale, nei luoghi dei campi di concentramento, lavoro o sterminio del Terzo Reich con destinazione nelle città tedesche e austriache o in direzione del confine orientale italiano, tra Trieste, Pola o Fiume. Un patrimonio costruito a partire dall’impegno delle istituzioni, dal lavoro meticoloso di insegnanti motivati, dalla straordinaria capacità di racconto di testimoni di storie dell’Europa del secolo scorso.
Penso alle pagine di Primo Levi nel centenario della nascita ma penso a chi ha letto o ascoltato Shlomo Venezia, Sami Modiano, Piero Terracina o le sorelle Bucci in tante occasioni di crescita e di arricchimento individuale.
Esperienze che lasciano il segno, fanno pensare, aiutano a radicare una consapevolezza critica del passato e delle sue eredità. Che senso ha chiedere una presunta equidistanza storica dagli orrori del Novecento? Un bilanciamento pretestuoso tra violenze e oppressione come se lo studio diventasse un tribunale in grado di distribuire ragioni e torti a distanza di decenni.
Viviamo un presente invasivo e onnipotente: tutto appare appiattito e uniformato lungo un piano indistinto di atteggiamenti, linguaggi e prese di posizione accostate senza ordine in una progressiva e inarrestabile perdita di senso. Forse da qui si può cominciare per tentare di non restare schiacciati dalla morsa inesorabile tra la confusione diffusa e la nuova ignoranza dominante.
Senza conoscenza non c’è cultura, il passato richiede attenzione, rigore, analisi e approfondimento.
Il contrario delle grida delle tifoserie organizzate, di chi cerca il prevalere di una posizione senza curarsi del contenuto e delle ripercussioni che l’accompagnano.
Se tutto ha lo stesso valore come se si potesse acquistare indistintamente un prodotto, un’analisi, un richiamo valoriale la nostra civiltà va in frantumi. Il patrimonio collettivo non è disponibile à la carte, non si tratta di un menu a uso e consumo del potente di turno. Se accettassimo tale deriva tutto sarebbe possibile.
Ma del resto chi poteva immaginare che un testimone della Shoah dovesse essere scortato nel centro di Milano o che si potesse discutere apertamente dell’essere italiano a partire dal colore della pelle o dalle traversie di un percorso familiare. Un paradosso terribile per chi tornato dai campi di concentramento è stato deriso, non creduto fino a quando le condizioni della società non hanno permesso a quei racconti di fare breccia nei cuori e nelle menti di tanti.
Sembra che tutto sia saltato, in una progressiva sconfitta delle costruzioni condivise che hanno segnato e accompagnato generazioni d’italiani.
Una sorta di tabula rasa che si manifesta nello spazio breve di alcuni anni circondata dal silenzio e dall’indifferenza di tanti. Così facendo saltano i limiti dei comportamenti individuali, in un autobus, in una classe di adolescenti, nella curva di uno stadio o nelle dinamiche di quartieri dove le librerie diventano pericolosi luoghi di ritrovo: la socialità colpevole di opporsi al dilagare dell’illecito.
Il linguaggio dei social non ha freni né controlli, ma anche il diffuso confronto delle idee è pieno di violenze, discriminazioni, giudizi precostituiti.
Un tessuto lacerato e sofferente rischia di essere cancellato, sostituito da un insulto, una condanna sommaria, una sopraffazione più o meno mascherata. Dovremmo averlo imparato: il sonno della ragione può generare nuovi mostri o farne resuscitare di antichi.
Umberto Gentiloni Repubblica 10/ 11/ 2019
La responsabilità tra testimonianza e memoria
In Storia senza perdono (Einaudi, pp. 96, euro 12), Walter Barberis affronta una ricognizione dell’impervio dibattito sulla memoria della Shoah che negli ultimi anni ha opposto storiografia e testimonianza, nella tensione tra l’irrinunciabile racconto dei superstiti e la necessaria impersonalità della ricerca storiografica. Lo fa con passo lieve, percorrendo l’enormità dell’accaduto, non emendabile, non rimediabile. Non soggetto a perdono.
Mettere assieme storia e perdono, fin dal titolo, è una mossa che sembra riconciliare i due corni della discussione: il perdono, necessariamente individuale, viene assunto, nella sua negazione, dalla storia. È la storia stessa a farsi depositaria del giudizio, e dunque garante – in un paradosso – dell’impossibilità di archiviare, di mettere la testimonianza nel passato: la storia ci dice che siamo di fronte a un passato che non passa né deve passare.
Primo Levi, riportato in esergo nel volume, ammoniva, quasi cinquant’anni fa: «Quando ho scritto Se questo è un uomo ero convinto che valesse la pena di documentare queste cose perché erano finite. Adesso non sono più finite: bisogna parlarne di nuovo». Bisogna parlarne di nuovo, con urgenza, risignificando ciò che abbiamo trasformato in retorica, convinti di averlo metabolizzato per sempre.
Già a un decennio dalla fine della Seconda guerra, ci si chiedeva se avrebbe ancora potuto succedere: se la catastrofe avrebbe potuto ripetersi, magari in condizioni e luoghi diversi. Lo scivolamento nell’oblio stava anestetizzando la sensibilità di molti. «Partiti e movimenti fascisti erano stati rifondati e, per quanto ufficialmente banditi, spesso erano tollerati e legittimati dalle aree politicamente più moderate e conservatrici».
Con passo misurato, quasi silenzioso, l’autore ci porta agli interrogativi che oggi ci stanno di fronte: quale difesa abbiamo dal potere assoluto che decide della vita delle persone e toglie umanità alle vittime, dopo aver trasformato i cittadini in carnefici passivi o volonterosi? Poca, se non si comprende, o si dimentica, che la nostra normalità si basa sull’orrore trattenuto, che può sempre rompere le catene.
Testimonianza e storia concorrono così «a rifornirci di una conoscenza e di una razionalità che ci consentono di mantenere vive le ragioni della democrazia contro ogni tentazione autoritaria, intollerante e razzista», perché, come insegna Levi, il nazionalismo e il razzismo, al fondo della loro espressione estrema, hanno il Lager.
La dimensione individuale della memoria, corale nel ripetersi uguale e tuttavia diverso delle esperienze, e la comprensione storica degli avvenimenti ci conducono insieme, inseparabili, alle molteplici cause del male che d’un tratto si libera e prende il potere, asservendo o incantando persone insospettabili, una dopo l’altra, fino a farne massa.
«Il male ha sempre cause molteplici, persino remote», scrive Barberis, «anche se si manifesta con la rapidità e la micidialità di un colpo di fucile. L’occhio non riesce neppure a vedere la traiettoria della pallottola; lo sguardo può fermarsi soltanto sulle conseguenze, sui cadaveri, sulle carni ferite, sulle menti sconvolte di coloro che sono stati colpiti».
La storia è il colpo di pallottola, di cui vanno ricostruite balistica e condizioni di possibilità; la testimonianza è lo sguardo che torna, e torna infinitamente, sui cadaveri, sul male subito e che si è visto subire da altri.
In Storia senza perdono si coglie una tensione allo sguardo d’insieme, a quella che, con bella invenzione, viene chiamata “conoscenza civile”, e una continua attenzione a evitare i luoghi comuni, le parole usurate di cui è lastricato il racconto della Shoah, svuotate, dilavate da un uso improprio e affrettato, fino a diventare scorciatoie del pensiero.
Così che quando leggiamo dei «tantissimi inerti, la maggioranza dimissionaria da qualunque responsabilità morale e civile», possiamo di nuovo chiederci se siamo chiamati in causa, fuori dalla formula della «zona grigia» che, non diversamente da quella, fraintesa e distorta, della «banalità del male», ha smesso di interpellarci.
Daniela Padoan Il Manifesto 25/10/2019
Vedi: I vampiri di Goya nemici della ragione
Perché la letteratura della Resistenza dovrebbe essere la nostra epica moderna
Il mancato lavoro della memoria
L’Europa ha deciso che comunismo e fascismo sono la stessa cosa. È una pericolosa equivalenza.
Chi non rispetta la storia di Liliana Segre non è degno di rappresentarci in Parlamento