Il neoliberismo sfrenato ha finito per minare le basi stesse della democrazia liberale. Che oggi può essere salvata solo ripartendo dalla difesa del lavoro e dal pensiero ambientalista
Perché la democrazia liberale è in crisi? E come si può salvare? Su queste domande si è aperta, nel mondo occidentale, una discussione che può cambiare radicalmente l’agenda politica, orientandola verso la lotta alle disuguaglianze e le politiche ambientali.
Spesso però qui da noi arriva un’immagine distorta, frutto di antichi riflessi condizionati. Per capire la reale posta in gioco bisogna sgomberare il campo da alcuni luoghi comuni, recuperando lo sguardo lungo della storia.
Il liberalismo è una dottrina di emancipazione, che parte dalla valorizzazione del lavoro (contro la rendita) e si fonda sui diritti dell’uomo: questi diritti nel corso del tempo si sono ampliati, fino a includere, oltre ai diritti civili di prima generazione (proprietà, sicurezza, libertà di opinione) i diritti sociali (enunciati in modo pieno nella Dichiarazione Onu dei diritti dell’uomo e valorizzati dalla nostra Costituzione, entrambe frutto della vittoria contro il nazi- fascismo), i diritti civili di seconda generazione e infine i diritti ambientali.
Difatti sia il welfare state, sia l’intervento pubblico in economia furono teorizzati da liberali (William Beveridge, John Maynard Keynes), con l’intento di salvare il liberalismo dal fascismo e dal comunismo. Quell’intento è riuscito, nella misura in cui il liberalismo si è incontrato in maniera feconda con il pensiero socialista e in generale con la sinistra riformista: donandoci alla fine le società più libere, prospere, e forse meno ingiuste che la storia ricordi; fiorite, assieme alla democrazia, nella seconda metà del Novecento.
A partire dagli anni Ottanta, una visione peculiare del liberalismo, il cosiddetto neoliberismo (o neoliberalismo), ha però progressivamente messo ai margini il discorso sui diritti umani, concentrandosi invece su una sola dimensione: la libertà economica.
In realtà, stando a quanto sostengono i più importanti studiosi del liberalismo (come Michael Freeden), il neoliberismo ne è una vera e propria distorsione, un’appropriazione indebita. Ed è stata un’appropriazione molto pericolosa, che ha finito per minare le basi della stessa democrazia liberale.
Primo, perché dentro i paesi avanzati le disuguaglianze sono tornate a riaprirsi: e non è un caso che proprio lì dove le politiche neoliberiste sono state perseguite con più convinzione (negli Usa, nel Regno Unito), quelle faglie interne si sono allargate di più; la cosiddetta trickle-down economics si è rivelata un’illusione, come riconoscono adesso anche gli analisti dell’Fmi.
Secondo, perché nei paesi che storicamente non hanno conosciuto il liberalismo e quindi la democrazia, capitalismo e crescita non hanno affatto portato anche i diritti umani, come i più ottimisti pensavano: non vi è nessun automatismo, l’esito dipende dalla battaglia politica (come Hong Kong e quello che invece non succede nel resto della Cina dimostrano) e, semmai, un’ideologia della felicità fondata esclusivamente sull’arricchimento individuale – come è quella propria del neoliberismo – non aiuta l’affermazione di una cultura e di istituzioni democratiche.
Di conseguenza assistiamo alla separazione fra capitalismo e liberalismo (in Cina, in Russia, a Dubai) e, con essa, ai rischi di uno sviluppo tecnologico sganciato dai diritti dell’uomo: il vero tema del nostro tempo, per le sue conseguenze potenzialmente drammatiche non solo per la democrazia, ma anche per l’ambiente e la stessa convivenza pacifica.
La novità è che un po’ ovunque in Occidente (anche in Italia) la sinistra riformista, che negli anni Novanta aveva anch’essa ottimisticamente abbracciato il neoliberismo, ha finalmente cominciato a discutere criticamente quella stagione, e a riflettere sui suoi stessi errori (ad esempio, la deregolamentazione dei capitali negli anni Novanta).
Sia chiaro però che non è un ritorno ai modelli del Novecento, se non altro perché il tema ambientale impone di superare i limiti dello stato-nazione, e lo stesso vale oggi per la difesa del lavoro. Deve essere un nuovo incontro, su un terreno diverso dal passato (perché europeista e internazionalista), fra il nucleo del pensiero liberale e le aspirazioni del pensiero socialista e ambientalista.
A ben vedere, è questa la naturale evoluzione del liberalismo. Può essere la scommessa su cui provare a salvare la democrazia e i diritti dell’uomo, le società aperte, cui tutti teniamo. Dentro i paesi avanzati le disparità sono tornate a riaprirsi E l’ideologia della felicità basata sulla ricchezza individuale ha messo la libertà in pericolo.
Emanuele Felice, economista e storico Repubblica 3/ 12/ 2019
Vedi: Psicopolitica e neoliberismo