C’è chi li chiama “nativi digitali” e li considera, a differenza degli “immigrati digitali”, dei “tardivi digitali” o degli “analfabeti digitali”, i soli depositari della “saggezza digitale”. Per altri sono la “generazione google”, la generazione prescelta, fortunata perché cresciuta con il mondo e il sapere universale a portata di click. Altri ancora, un po’ più scettici, li definiscono “generazione copia e incolla”, rilevando la natura imitativa e non creativa dei loro processi cognitivi.
Da alcuni anni mi ritrovo a insegnare materie letterarie in una scuola media dell’estrema periferia di una grigia metropoli settentrionale, in un contesto sociale, culturale ed economico che ben pochi colleghi invidiano. All’inizio è stata dura, ma col tempo ho imparato a considerarlo un osservatorio privilegiato su dinamiche relazionali d’avanguardia, oggi parzialmente definite come disfunzionali, se non devianti, ma che tra qualche anno saranno normalità.
Non sono un antropologo, un sociologo, un pedagogista, né tantomeno un neuropsichiatra. Sono giunto a questa professione in età matura, dopo svariate esperienze lavorative, ma ho vissuto e appreso quanto basta per rendermi conto che non capita tutti i giorni l’occasione di osservare a una distanza tanto ravvicinata e per un tempo d’esposizione così intensivo il momento del Trapasso.
Trapasso da un ordine di umanità a un altro. Secondo alcuni pareri non necessariamente peggiore rispetto al precedente. Sicuramente diverso e destinato a mutare ancor di più, fino a quando gli ultimi relitti del vecchio, tuttora galleggianti a brandelli nell’inconscio collettivo delle nuove generazioni, verranno risucchiati dalle tenebre ed espulsi dall’orizzonte della post-istoria come estranei anacronismi. Come reperti da scovare, disseppellire, interrogare (se mai ci sarà ancora qualcuno, mosso dalla desueta passione della curiosità, desideroso di farlo).
Diversità non soltanto sul piano dell’orizzonte culturale condiviso, già di per sé abissale (nella storia dell’evoluzione umana non è mai avvenuto che l’intero sistema di valori, di rappresentazione, d’interpretazione e di relazione con l’altro-da-sé, più in generale con la realtà, di una generazione fosse tanto distante da quello delle generazioni precedenti), ma più propriamente strutturale.
In poco meno di un quarto di secolo, con una rapidità eccezionale, la struttura della mente umana è radicalmente mutata e con essa i processi mentali, i meccanismi di pensiero, la percezione della realtà, la coscienza di sé e del mondo.
Sarò senza dubbio un inguaribile passatista, ma per quanto mi sforzi di valutare la questione sotto tutti i punti di vista, non riesco proprio a convincermi del fatto che ciò possa rappresentare un momento di cambiamento positivo per il genere umano. O, come ritengono molti commentatori, un progresso. Inteso pasolinianamente come un miglioramento delle condizioni di vita e delle relazioni tra gli esseri umani.
Sono considerazioni poco apprezzate di questi tempi, ma bisogna pur riconoscere una volta per tutte che l’evoluzione non è sempre positiva. E quella provocata in tempi rapidissimi da uno sviluppo tecnologico scriteriato e tremendamente invasivo, animato dalla sola logica del profitto, è angosciante e disastrosa.
Quando osservo i miei alunni durante le attività didattiche e ricreative, ma anche in contesti extrascolastici (alla fermata del bus, ai giardinetti, in panetteria), mi torna alla mente una mostra di scultura alla quale fui condotto anni fa, all’estremità opposta della penisola, da un amico pittore. Ciascun’opera rappresentava un corpo umano. Eppure, niente che fosse più lontanamente immaginabile rispetto all’idea classica di rappresentazione della figura umana come forma perfetta, equilibrata, simmetrica. I corpi scolpiti da questo artista erano brandelli di carne. Figure mutilate, disarmoniche, che si torcevano nell’ostentazione a stento trattenuta dell’insostenibile dolore per la propria tremenda condizione. Pur sempre umana.
Ne rimasi molto colpito. Tutto l’orrore e il dolore dell’esperienza umana sulla Terra mi parve condensato in una sintesi perfetta in quei poveri corpi, che immaginavo costretti da una forza estranea, potentissima e travolgente, a subire l’indicibile.
Paragono a quelle figure questi zombetti, torma di anime a brandelli, prigioniere di corpi disabituati al movimento, incapaci di relazionarsi in maniera sana all’ambiente circostante, corpi ingombranti, non più padroneggiati, con cui non si riesce più a giocare, a divertirsi. Veri corpi contundenti, usati come arma d’offesa o come scudo, rispetto a un altro-da-sé percepito animalescamente come potenziale minaccia, come fonte di pericolo e, in quanto tale, come nemico-da-sopraffare.
Zombetti: creature liminali, in transizione, non ancora interamente spurgate degli ultimi residui dell’Umano né già cristallizzati nella forma di una nuova barbarie tanto arcaica quanto futuribile, ben più spaventosa di quelle immaginate dalle distopie più inquietanti del secolo scorso.
Poveri esserini inclassificabili, incapaci di distinguere la realtà dalla finzione, il bene dal male, analfabeti culturali ma soprattutto etici, al tempo stesso vittime e carnefici, in balia d’impulsi estemporanei, incontrollabili, imprevedibili, spesso bislacchi, quando non balordi. Certo compulsivi.
Pervasi dalla frenesia incontenibile dell’affermazione-di-sé a scapito dell’altro, questi zombetti sono impossibilitati a stare fermi, ma si muovono in maniera scomposta e scoordinata. Hanno orrore del silenzio, ma sono incapaci di comunicare. Temono la noia ma sono privi di qualsiasi curiosità. Vomitano a voce alta tutto ciò che attraversa la loro mente in qualsiasi momento, senza attinenza al contesto e senza interesse alcuno nella risposta, perché distratti e catturati da un’ennesima futilità di cui sono già sazi.
È il pop-up assurto al rango di processo cognitivo primario. È la fine della logica, la morte del pensiero sequenziale, il crepuscolo delle categorie aristotelico-kantiane, il crollo dell’impalcatura che ha sorretto la mente umana per oltre duemila anni. Il momento di buio nella dissolvenza incrociata tra la sempre più labile persistenza di un substrato di antiche forme e valori e il trionfo devastante della dittatura dell’Ottuso e del Demente.
Gli zombetti sono gli aborti della tecnocrazia, sono i figli della generazione “social”.
Gli zombetti non ci guardano. E fanno anche bene. Perché se osservassero attentamente, avrebbero contezza dei veri sentimenti che i genitori nutrono verso di loro. Perché gli zombetti sono palle-al-piede, sono un ostacolo al sereno svolgimento della vita “social” di coloro che li hanno messi al mondo come effetto collaterale della precarietà, dell’insicurezza, dell’egoismo e della brama di affermazione-di-sé caratteristico della società “liquida”. Non “adulti”, ma adolescenti decrepiti eternamente frustrati e a caccia di soddisfazioni facili e a breve termine per rattoppare il proprio ego.
Gli zombetti sono la prima generazione della Storia di figli deprivati dell’amore genitoriale. Sono l’effetto della scomparsa di quell’istinto naturale che nel mondo animale, e fino a qualche tempo fa anche tra i mammiferi bipedi e raziocinanti, lega visceralmente le generazioni. Ma se i genitori non possono o non vogliono occuparsi di loro perché troppo occupati a postare i propri selfie su instagram o a cercare nuove avventure su tinder, ma anche perché stritolati da un mercato del lavoro sempre più crudele e spietato, chi si occupa degli zombetti? In un tempo non troppo lontano si auspicava (allora forse giustamente) l’uccisione del “padre”. Oggi che il padre (e la madre) si sono suicidati, chi fa le loro veci?
La scuola, trasformatasi in bambinopoli, ludoteca, oratorio, riformatorio, dove operano insegnanti riconvertiti in baby-sitter, badanti, assistenti sociali, psicologi, animatori, sorveglianti o mandriani, con tutti i suoi limiti e nella migliore delle ipotesi, si sforza di fungere da cinghia-di-contenzione alla macelleria sociale.
Per il resto del tempo, gli zombetti crescono allevati dagli influencer di youtube, dal porno estremo e dai videogames iperrealistici di guerra.
Tutto ciò ha delle conseguenze: l’esposizione eccessiva al bombardamento casuale e ininterrotto di immagini sin dai primi anni di vita altera la percezione della realtà, causando un’incapacità cronica nel mantenere la concentrazione per più di pochi secondi; la dipendenza dai cellulari e la precarietà sentimentale dell’ambiente familiare anestetizzano le emozioni, annientano la curiosità, uccidono lo stupore; il consumo intensivo di pornografia sin dall’età infantile li priva dell’innocenza e del piacere proibito della seduzione, rendendoli vecchi e laidi sessuomani già in età prepuberale.
Gli aberranti modelli “adulti” li spingono inoltre a introiettare a tal punto la fregola collettiva del denaro facile che nutrono un disprezzo acerrimo nei confronti dei poveri e di chi svolge onestamente il proprio, scarsamente retribuito, lavoro e a pretendere che tutto sia loro dovuto. Ora e subito.
Alla domanda “cosa vuoi fare da grande?”, alla quale le risposte tradizionali delle vecchie generazioni erano “l’astronauta” o, tutt’al più, “il calciatore” o “il cantante”, la risposta più frequente oggi è “quello che comanda” oppure “quello che ha i miliardi”. Alla richiesta di ulteriori chiarimenti, l’argomentazione prevalente è “perché così posso avere tutte le femmine che voglio e tutti crepano d’invidia”.
Sì, è vero. L’ambizione al potere, al comando, al controllo degli altri e all’ostentazione del proprio status è propria dell’essere umano. Ma è anche vero che essa è ancor più marcatamente peculiarità dell’homo italicus, pecorone oltre ogni limite, pavido, frustrato, invidioso, scalcagnato e megalomane. Desideroso di ottenere il massimo col minimo impegno.
Ma allora chi sono, pertanto, questi zombetti?
Gli zombetti sono l’ultima incarnazione del popolo più fascista, stupido e zombesco che sia mai comparso sulla terra: sicurezza, ambizione, ordine, conformismo, paura del diverso, apparenza, spettacolo, delirio d’onnipotenza, mania di protagonismo, istinto di sopraffazione dell’altro e di conservazione di sé, brama di successo e di vittoria a danno degli altri. Queste erano le parole d’ordine del regime e questi sono ancora a oggi, a un secolo esatto da San Sepolcro, gli istinti più reconditi e radicati degli zombetti, confusamente mischiati nell’indistinta nebulosa della loro bestiale (in)coscienza.
Gli zombetti sono gli italiani tre-punto-sottozero, i diretti eredi di quel processo di mutazione antropologica denunciato da Pasolini.
Sono i nipotini del capitalismo selvaggio, l’esito terminale e residuale di mezzo secolo di politiche sociali, economiche, urbanistiche, scolastiche deprecabili, di decervellamenti culturali, di degradazioni ambientali.
Gli zombetti sono la nuova futura maggioranza. Una maggioranza non più silenziosa ma fracassona e frignona, capricciosa e viziata, disadattata e squilibrata. Una nuova massa di dormienti digitali manovrabili, programmabili e pronti a saltare alla gola di chi intralcia il suo cammino. Un esercito di lemming inconsapevolmente predestinati al fallimento, ostinatamente diretti verso il baratro, in fondo al quale trascineranno tutto ciò che incontreranno.
Quando nelle aule insegnanti di tutta Italia ci si lamenta del fatto che “il livello medio rispetto a quindici anni fa si è abbassato notevolmente”, bisognerebbe interrogarsi seriamente e senza ipocrisie autoassolutorie sulle cause.
Perché la vera tragedia del nostro tempo non è tanto la mutazione dell’infanzia, con il corollario della scomparsa delle peculiarità tipiche di questa età (lo stupore, l’innocenza, la curiosità, la fantasia, la creatività, la forza immaginativa, la permeabilità, eccetera), quanto l’irresponsabilità e la stupidità cronica degli adulti.
Pertanto, in quei rari casi in cui gli zombetti ci guardano, urlando contro di noi, contro i compagni o contro la vecchietta che attraversa la strada, non bisogna pensar troppo male di loro. Stanno solo cercando di rassicurare se stessi della propria esistenza, utilizzando quegli strumenti ereditati dagli adulti.
Noi e gli zombetti. Legati a morte dal medesimo fallimentare destino.
Livio Marchese, insegnante in Gli Asini dicembre-gennaio 70-71/2019- 2020
Se i nostri figli sono «zombetti»
Gli «zombetti» sono i nativi digitali che Livio Marchese ha occasione di osservare dall’«osservatorio privilegiato» della scuola media (scuola di una periferia del Nord) in cui insegna materie letterarie
Certo che si presterebbe a una seria discussione il durissimo intervento di Livio Marchese, pubblicato nell’ultimo numero de Gli asini, il mensile di Goffredo Fofi. L’articolo si intitola «Noi e gli zombetti», e non c’è alcun dubbio che si tratti di considerazioni eccessive sulla generazione dei nuovi adolescenti, ma è altrettanto vero che basta guardarsi intorno per riconoscere nell’invettiva di Marchese elementi almeno inquietanti.
Gli «zombetti» sono i nativi digitali che Marchese ha occasione di osservare dall’«osservatorio privilegiato» della scuola media (scuola di una periferia del Nord) in cui insegna materie letterarie. Lasciamo stare se le sue posizioni siano pessimiste o passatiste o apocalittiche: il fatto è che un insegnante come lui vede nei suoi alunni, durante le attività didattiche e ricreative, una «torma di anime a brandelli, prigionieri di corpi disabituati al movimento, incapaci di relazionarsi in maniera sana all’ambiente circostante, corpi ingombranti, non più padroneggiati, con cui non si riesce più a giocare, a divertirsi».
Quasi creature post-umane. Sarà pure una descrizione iperbolica, visibilmente pasoliniana, e ci si chiede con che spirito un docente si accosti al proprio mestiere in queste condizioni. Ma nessuno, avendo esperienza degli adolescenti (e preadolescenti) attuali tirati su da influencer e youtuber, cresciuti nel narcisismo autistico da selfie e da musically, può evitare di interrogarsi sugli effetti ottundenti e contundenti della compulsività digitale.
Non è né passatista né pessimistico porsi qualche domanda (preoccupata? sì, preoccupata) di fronte all’elenco spaventoso degli «istinti radicati» che Marchese intravede nei suoi zombetti: conformismo, paura del diverso, spettacolo, delirio d’onnipotenza, mania di protagonismo, istinto di sopraffazione, brama di successo e di vittoria a danno degli altri.
Difficile, anche per un ottimista proiettato felicemente verso il futuro, non riscontrare almeno una tendenza zombesca nelle generazioni Tic Toc (accedere per credere). Basta affacciarsi in una media scuola media. Dove i deboli vadano a farsi fottere e i forti rimangano forti, bulli, volgari, arroganti. Con l’approvazione e la fierezza di mamma e papà. Perché la vera tragedia sono gli «istinti» dei genitori, dice Marchese. E qui, davvero, come dargli torto.
Paolo Di Stefano corriere.it 13 gennaio 2020
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