Quando, nel suo discorso di insediamento alla Casa Bianca, Trump affermava che non era lui a parlare, ma il popolo americano, esprimeva qualcosa che andava ben oltre una vittoria elettorale. Quello che nelle sue parole si compiva era il percorso aperto qualche decennio prima da Perón, allorché sosteneva di incarnare nella propria persona il popolo argentino. Non diversamente Chávez aveva dichiarato di non essere un individuo, ma l’intero popolo venezuelano.
A unire tali dichiarazioni è più che un’aria di famiglia. È un cambio di paradigma riassunto efficacemente da Matteo Salvini all’indomani delle elezioni italiane: «Il punto non è più destra contro sinistra, ma popolo contro establishment».
Confinato fino a poco fa nella periferia del mondo, il populismo si è progressivamente installato al cuore della democrazia occidentale. Ma cosa è davvero il populismo? Come si genera e soprattutto come cambia, una volta andato al governo? È solo un avversario politico del liberalismo o l’anticamera di un nuovo tipo di fascismo? Una risorsa o una minaccia per la democrazia?
Il nuovo libro di Nadia Urbinati, appena edito da il Mulino, Io, il popolo. Come il populismo trasforma la democrazia, mette ordine nella disparità delle interpretazioni, fornendo una risposta equilibrata a tali domande.
Il populismo non è un nemico venuto dall’esterno, ma un prodotto deformato della stessa democrazia. Non solo perché nasce dai suoi scompensi – l’allagarsi delle disuguaglianze sociali, il prevalere delle potenze finanziarie globali a scapito degli interessi nazionali –, ma perché resta formalmente dentro il perimetro democratico.
Non intende rovesciare i suoi istituti, come fa il fascismo, ma li “stressa” al punto da minarne il funzionamento. Sostituendo al classico clivage destra/sinistra il discrimine popolo/casta, divarica i presupposti della democrazia rappresentativa.
Da un lato assolutizza il principio maggioritario, attribuendo alla parte vincente il ruolo del tutto. Dall’altro declassa i principi liberali della separazione dei poteri e dei diritti costituzionali a ostacoli da superare.
Il presupposto dei suoi sostenitori – non solo di destra, ma anche raffinati intellettuali di sinistra come Ernesto Laclau, Chantal Mouffe e Nancy Fraser – è il contrasto di fondo tra democrazia e liberalismo, teorizzato a suo tempo da Carl Schmitt in funzione antiparlamentare.
È proprio quanto Urbinati contesta, saldando liberalismo e democrazia fino a considerare l’espressione “democrazia illiberale” una contraddizione. Mentre una democrazia populista può esistere, almeno fin quando il populismo non entri in contrasto con i suoi stessi presupposti. Che sono da un lato il rapporto immediato tra popolo e movimento – attraverso l’uso ininterrotto del web – e dall’altro l’identificazione salvifica tra movimento e leader.
Ora, se entrambe le cose risultano realizzabili stando all’opposizione, diventano problematiche quando il movimento populista va al governo. Intanto perché deve, prima o poi, trasformarsi in partito. E poi perché viene meno la sua proclamata diversità dalle altre forze politiche. Entrambe queste difficoltà sono attualmente sperimentate dai 5Stelle, cui Urbinati dedica un’analisi ravvicinata in confronto con Podemos.
La forza del suo libro sta nella capacità di cogliere analogie e differenze – non solo tra le diverse compagini populiste, ma anche tra esse e i movimenti di protesta, del tutto compatibili con le dinamiche democratiche. A dividerli è una diversa concezione del conflitto politico. Nel caso delle proteste di massa espressivo di partecipazione politica, nel caso del populismo tendente all’esclusione dell’avversario, bollato come nemico del popolo.
Quest’analisi mi pare in larga misura condivisibile. Con due integrazioni. La prima, relativa al passato, è che molte delle contraddizioni espresse dal populismo risalgono, prima ancora che agli scompensi della democrazia, alla costituzione delle categorie politiche occidentali, fin dall’origine sdoppiate in due significati disomogenei. Per esempio il termine “popolo” è stato inteso da sempre in due sensi diversi e contrastanti, riconducibili da un lato alla “parte popolare” e dall’altro all’intera cittadinanza, ora alla plebs ora al populus.
L’altra considerazione è che il modo più efficace per affrontare i populismi dilaganti sta nel ripensare radicalmente il rapporto tra movimenti e istituzione. Non solo istituzionalizzando i movimenti, ma anche “mobilitando le istituzioni”.
Roberto Esposito Repubblica 24/ 1/ 2020
Il libro: Io, il popolo di Nadia Urbinati, ed.il Mulino 2020, €24
Le due democrazie
La decisione della Corte Costituzionale di giudicare inammissibile il referendum sulla legge elettorale proposto dal centro-destra ha messo in luce l’esistenza di due concezioni di democrazia: una costituzionale e una populista.
La Consulta ha dichiarato il testo della proposta referendaria inammissibile perché “eccessivamente manipolativo”. La reazione di Matteo Salvini non si è fatta attendere: «Vergogna, è difesa del vecchio sistema». Non vi è di che stupirsi, ha commentato Massimo Luciani in un’intervista rilasciata a Repubblica, dei giudizi negativi dei proponenti sconfitti: «È un costume politico diffuso farsi piacere la Consulta quando ti dà ragione e considerarla eversiva quando ti dà torto».
Ma in questo caso Salvini, e con lui altri esponenti del suo partito e Giorgia Meloni, è andato oltre il giudizio di disappunto. Nel commentare criticamente il verdetto, Salvini ha gettato discredito non tanto su questa specifica Corte o decisione, ma sul ruolo stesso della Corte. La quale, ha dichiarato il capo della Lega, «allontana la democrazia, allontana i cittadini dai palazzi»; è «una delle ultime sacche di resistenza del vecchio sistema».
Non una legge elettorale o un sistema elettorale semplicemente, ha scatenato la reazione salviania. Ma un modo di procedere, quello che è a tutti noto come un modello democratico-costituzionale.
Quella della Consulta, ha detto Salvini, è «una scelta contro la democrazia». Contro la democrazia perché limita e blocca il ruolo degli attori politici, ai quali, sembra di capire, appartiene la democrazia.
Che non è dunque solo come un sistema di regole del gioco che non appartengono a nessuno dei giocatori, ma invece un meccanismo di potere che appartiene a chi compete politicamente per la maggioranza e il governare. Qui secondo Salvini sta la democrazia. Magistrati, istituzioni di controllo e di limitazione del potere sono non parte ma ostacoli della democrazia.
Questo è il nocciolo della democrazia populista, che ha dato prova di sé in numerose esperienze passate e recenti, in America Latina e ora anche nel continente europeo.
In un discorso che tenne nel 1946, Juan Domingo Peròn si presentò come un vero democratico, in opposizione ai “demoliberali”, che, diceva, «difendono un’apparenza di democrazia», un gioco formale nel quale le regole contano più delle maggioranze, le corti più del governo.
Il populismo non è solo contestazione e opposizione. Ha l’ambizione di governo e pensa di essere non una maggioranza tra le altre bensì la “vera” maggioranza, quella che le precedenti maggioranze non hanno espresso ma occultato e manipolato.
Una maggioranza sostanziale — quella degli italiani “veri” — che l’audience e il gradimento del pubblico rendono molto meglio della conta dei voti. È questo dualismo tra democrazia “del vecchio sistema” formalistico e democrazia “vera” e sostanziale che fa capolino dietro l’attacco di Salvini alla Suprema Corte.
Una democrazia populista tollera a fatica o non tollera affatto quelli che sono i caratteri della democrazia costituzionale: la divisione dei poteri, l’indipendenza del potere giudiziario, lo statuto dei diritti fondamentali (che non sono quasi mai soltanto dei cittadini). Essa declassa queste condizioni normative di legittimità a ostacoli del decisionismo politico; li rubrica come ossificazioni del “vecchio sistema”, dell’establishment.
Se potessero, i populisti scriverebbero le loro costituzioni per incardinare la loro maggioranza, stracciando i principi della generalità e dell’imparzialità della legge nel nome della volontà del loro popolo.
Nadia Urbinati Repubblica 18/ 1/ 2020
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