Si sono fermati anche stavolta. Il vertice di maggioranza che doveva dare via libera alla correzione dei decreti sicurezza ha fatto un mezzo passo avanti, ma non è ancora il traguardo. Tra i partiti della Resistibile Armata Giallorossa non c’è accordo. M5S e Pd, Italia Viva e Leu rendono manifesto quello che già si temeva all’atto di nascita di un governo da “stato di emergenza e di eccezione”.
Si rinvia ancora una volta quello che dovrebbe essere il primo vero atto fondativo di una coalizione altrimenti irrisolta e sospesa tra un passato che non passa e un futuro che non sorge. Siamo onesti. Qualunque governo serio, non dominato dai miasmi del rancore sociale e dai fantasmi dell’intolleranza razziale, quei decreti li avrebbe cancellati in un minuto e con un tratto di penna.
La ministra Lamorgese prova a fare molto meno. Una semplice correzione dei due provvedimenti ereditati dal suo predecessore, come chiesto anche dal Capo dello Stato. Per i pentastellati è troppo, per i democratici è troppo poco. Così, per adesso, la mediazione non riesce, e l’esecutivo non esce dalla palude. Dicono da mesi “il governo va avanti se fa le cose”. La modifica dei decreti sicurezza è “la cosa” per eccellenza, perché chiude anche simbolicamente l’era di Salvini al Viminale. Purtroppo non l’hanno ancora fatta.
Non la vuole fare il Movimento, perché Di Maio quei due decreti (come tutte le altre nefandezze compiute allora dall’uomo del mojito) li ha condivisi tutti: era solo il 6 agosto 2019 quando l’allora vicepremier Giggino brindava al decreto sicurezza bis dicendo «finalmente mettiamo fine allo show dell’immigrazione».
Non la può fare Conte, perché sul primo decreto sicurezza ci ha messo la firma e la faccia con la penosa photo opportunity del 25 settembre 2018, quando il premier felice come una Pasqua fece da uomo-sandwich al suo vice impugnando il cartello “#decretoSalvini – sicurezza e immigrazione”, con tanto di stemma della Presidenza del consiglio. Non la sa fare neanche il Pd, ripetendo per pavidità lo stesso tragico errore che commise sullo ius soli alla fine del 2017.
Nonostante il segretario Zingaretti, all’assemblea di Bologna del 17 novembre, abbia gridato «ci batteremo perché al più presto si rivedano quei decreti della paura». Nonostante a Radio Capital, il 6 febbraio, abbia tuonato «sono i decreti dell’odio, il governo volti pagina al più presto». Nonostante tutto questo, quei due “totem” dell’Era Papeete restano lì, ancora intatti. Monumenti imperituri alla discriminazione, che nessuno riesce ad abbattere.
I decreti Salvini sono eticamente patogeni e tecnicamente criminogeni. La supermulta fino a 1 milione alle navi non governative che violano il divieto di ingresso nelle acque territoriali e la confisca delle imbarcazioni tradiscono solo un’intenzione punitiva e persecutoria nei confronti delle Ong, screditate dal punto di vista morale e bastonate dal punto di vista penale. L’abolizione dei permessi umanitari e la smobilitazione degli Sprar gestiti dai comuni producono solo più clandestinità e più illegalità. Secondo l’Ispi, in un anno i migranti che si sono ritrovati sprovvisti di status giuridico sono stati almeno 90 mila, di cui almeno 30 mila finiti nel giro delle mafie.
Ma per quanto perversa e cinica, nei due decreti Salvini c’è una logica. La stessa che Capitan Mitraglia aveva rivendicato nel marzo 2019 al Senato, quando si difese dalla richiesta di autorizzazione a procedere sulla Nave Diciotti. La stessa che ha sbandierato nuovamente a Palazzo Madama la settimana scorsa, quando si è difeso dall’analoga richiesta sulla Nave Gregoretti: la “difesa dei confini della Patria”.
Poco importa la grottesca implausibilità della giustificazione, visto che in tutti e due i casi si è trattato di navi della Guardia Costiera, che per diritto non possono “invadere” il territorio italiano di cui già sono un’estensione materiale in mare aperto. Conta la sub-cultura autarchica, xenofoba e falsamente securitaria che fa da sfondo.
La mozione dei “porti chiusi” e della “pacchia è finita”. L’emozione del Vangelo e della Madonna Pellegrina, esibiti nei comizi come il ripristino di un sistema “valoriale” insidiato dalla teoria della sostituzione etnica. La narrazione di una politica sovranista che ha nutrito le paure del ceto medio impoverito, non per liberarlo ma per tenercelo imprigionato.
La paccottiglia ideologica propria del nuovo populismo, che su un problema reale e complesso (la società multi-etnica, la gestione dei flussi migratori, le disuguaglianze) costruisce una dottrina banale e semplicistica.
Il suo effetto pratico è nullo, perché la dottrina è per definizione inefficace. Ma il suo impatto psicopolitico è altissimo, perché investe sul bisogno di protezione percepita dei singoli e della collettività. In questo modo la destra “radicale di governo” ha cementato il consenso, che non è buon senso ma senso comune.
Lo ha fatto quand’era maggioranza, continua a farlo oggi che è all’opposizione. Ma proprio per questo per il governo giallo-rosso resta fondamentale la svolta, la discontinuità, la rottura. Proprio a partire dalle fondamenta “etiche” sulle quali Salvini ha edificato una sua egemonia nel Paese. Si tratta di raccontare agli italiani “un’altra storia” (anche se in molti, abituali avventori di quella tavola calda per antropofagi che è ormai diventata la Rete, non vorrebbero sentirla).
Si tratta di farlo con tutto il coraggio che serve, e di non ragionare mai più (come a sinistra hanno fatto e fanno in troppi) come i capi popolo di ogni tempo: devo seguirli, sono il loro leader.
Massimo Giannini Repubblica 18/ 2/ 2020
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