Si dice sempre che l’Italia ha tanti guai, ma nelle emergenze riesce a dare il meglio di sé. Senza rovinare il presepe dell’unità nazionale, possiamo riconoscere onestamente che stavolta non sta andando così? Senza nutrire la bestia dell’anti-politica, possiamo aggiungere sommessamente che la colpa non è degli italiani, ma di chi a vario titolo li governa e li rappresenta?

Sia chiaro: fronteggiare un’epidemia nell’era della globalizzazione è difficile per chiunque. Lo è per una inflessibile dittatura post-comunista, figuriamoci per una fragile democrazia liberale. Il sistema Paese fatica a reggere allo stress test del Covid-19, trasformato troppo presto in Sindrome Cinese.

Lo certificano due immagini. Fontana, che dovrebbe tranquillizzare i lombardi e invece, con lo sguardo torvo dell’ora più buia, si fa riprendere negli uffici della Regione mentre indossa una mascherina. Salvini, che dovrebbe offrire soluzioni e invece, con l’artiglio truce dell’avvoltoio, volteggia sul Colle per chiedere crisi ed elezioni anticipate.

Gesti dissennati, “atti sediziosi” che nulla hanno a che fare con la dignità e la responsabilità. Amplificano il disordine istituzionale. Riflettono un vizio trasversale: l’uso politico del virus, che contamina centro e periferia.

Prima c’è stata la “settimana Albert Camus”: il Covid-19 come nuova Peste, dunque allarmi governativi e ordinanze emergenziali, zone rosse e blocchi stradali, economia di guerra e tamponi di massa, Venezia città vuota e Milano città chiusa (come la Orano del grande romanziere francese).

Poi è scattato il “momento Mark Twain”: il Covid-19 come la solita influenza, nessuno si farà del male, dunque “la notizia della mia morte è decisamente esagerata” (come da telegramma del grande romanziere americano).

In mezzo i poveri italiani, sgomenti di fronte alla contabilità delle vittime e sbigottiti di fronte a tanta Babele sanitaria e securitaria, operativa e comunicativa. Il circuito politico-istituzionale prima li ha impauriti e disorientati con le sue scelte frammentate e contraddittorie, che hanno innescato comportamenti irrazionali (l’assalto ai supermercati per l’acqua e la farina) ma anche atteggiamenti solidali (gli abitanti di Gorgonzola che portano cibo a quelli del Lodigiano).

Poi, fatti due calcoli sui costi insopportabili del motore industriale del Paese bloccato dai decreti e dal panico, ha innescato una grottesca retromarcia. Così la politica ha prodotto un doppio danno, a se stessa e alla comunità: è apparsa debole e poco credibile sia quando ha gridato al lupo al lupo, sia quando ha sussurrato che il lupo non morde.

Sono deboli e poco credibili le Regioni. Fino a domenica quelle del Nord a trazione leghista hanno drammatizzato la crisi con le misure più estreme, dalla serrata dei musei allo stop al Carnevale. Da Palermo ad Aosta, è partita la folle rincorsa di sindaci e governatori, il localismo sanitario fai-da-te. Zaia ha chiuso scuole e bar. Fontana ha fatto peggio. Prima ha paragonato la Lombardia a Wuhan. Poi, preso a ceffoni dal presidente di Assolombarda Bonomi, ci ha ripensato e ha detto che il coronavirus «è poco più di un’influenza». Infine, mentre Sala lanciava l’hashtag #Milanononsiferma, ha rilanciato l’allerta con la sceneggiata della mascherina. Lo chiamano “federalismo”: è solo caos.

È debole e poco credibile il governo. Nel passaggio dalla pochette al maglione, Conte non ci ha guadagnato nulla. Il premier è stato prudente e inconcludente. Prima ha troncato e sopito, dicendo «l’Italia è un Paese sicuro dove si può venire a fare turismo» mentre da Israele alle Antille ci chiudevano porti e frontiere perché ora i veri “cinesi” siamo noi.

Poi da domenica anche lui ha dato fuoco alle polveri, passando l’intera giornata in diretta tv, dalla Annunziata a Giletti, passando per Mara Venier, Barbara D’Urso e Fabio Fazio. Ha snocciolato i rituali nonsense (“la linea della massima precauzione ha pagato, anche se ora non sembra…”). Ha accusato l’ospedale di Codogno (salvo poi dover chiedere scusa ai medici e infermieri). Non ha saputo garantire il coordinamento con la Protezione civile. Non ha saputo esercitare la sua “auctoritas” con le Regioni.

Eppure l’articolo 117 della Costituzione glielo consentirebbe, visto che al punto q) assegna allo Stato la potestà legislativa piena ed “esclusiva” in materia di “profilassi internazionale”.

Altro che “importantissimo punto di riferimento per tutti i progressisti”. È proprio questa insostenibile leggerezza del premier, insieme alle note criticità della sua coalizione, che alimenta quella che Ezio Mauro definisce “la grande tentazione”. L’idea di sostituire questo “governicchio” con un “governissimo”, sull’onda dell’urgenza sanitaria e dell’emergenza economica.

Un altro gioco di palazzo, velleitario e autolesionista, che darebbe al mondo l’immagine di una “Nazione Infetta” e ingovernabile.

Il morbo prima o poi passerà: ma il Covid-19 lascerà macerie economiche sconfinate. La sfida della ricostruzione sarà immane, e questo Conte 2 non pare all’altezza. Di fronte al “vairus”, Zingaretti solidarizza con Fontana, Renzi gli invia pizzini digitali, Di Maio vaneggia di “info-demia”.

Non si va lontano con l’immobilismo, il filibustering, lo scaricabarile. Ma l’alternativa non si costruisce con le formule da laboratorio. La politica non è un vaccino, e a noi manca l’una e l’altro. Per questo restiamo un Paese in quarantena.

Massimo Giannini          Repubblica  28/ 2/ 2020

 

 

“Il prezzo pagato dalla brava gente che non si interessa di politica è di essere governata da persone peggiori di loro.”

Platone (428- 328 a.C.), filosofo greco


 

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