Potrebbe essere la parola chiave della governance neoliberale. Il dominio della paura, il potere esercitato attraverso l’emergenza sistematica, l’allarme prolungato. Si diffonde timore, si trasmette ansia, si fomenta odio. Vengono suggerite minacce immaginarie, amplificati pericoli reali. La fiducia svanisce, l’incertezza ha il sopravvento. La paura perde la direzione e prorompe in panico.
La psicopolitica non è una novità di questi tempi. Se la paura domina gli animi, allora con la paura è possibile dominare gli animi altrui. È evidente da sempre il nesso stretto con il potere.
Ma nello scenario della globalizzazione la paura non è semplicemente uno strumento di governo. Né tanto meno ha le forme totalitarie del passato, quando era il terrore stesso a governare, mentre il potere divorava il popolo, cioè il proprio corpo, e conteneva i germi dell’autodistruzione.
Oggi la paura è piuttosto un’atmosfera. Ciascuno è consegnato al vuoto planetario, esposto all’abisso cosmico. Non occorre un avvertimento diretto, perché i rischi sembrano provenire dall’esterno. Nella sua apparente assenza il potere minaccia e rassicura, esalta il pericolo e promette tutela – una promessa che non può mantenere.
Perché la democrazia post-totalitaria richiede la paura e sulla paura si fonda. Ecco allora il circolo perverso di questa fobocrazia. Suspense e tensione si alternano in una veglia permanente, in un’insonnia poliziesca, che provoca incubi, abbagli, allucinazioni.
Si accendono e si spengono focolai di apprensione collettiva, si induce lo stress a intermittenza, fino a raggiungere l’apice dell’isteria collettiva, senza alcuna strategia e senza chiari scopi, se non la chiusura immunitaria di una comunità passiva, disgregata, depoliticizzata.
Così il «noi» fantasmatico si sottomette temporaneamente all’emergenza e ai suoi decreti. Ma questa fobocrazia ha una presa provvisoria e rischia a sua volta di essere destituita e detronizzata dall’ingovernabile virus sovrano che vorrebbe governare.
Donatella Di Cesare, filosofa L’Espresso 15/3/2020
Coronavirus. Così le norme contro il virus possono rievocare il “dictator”.
L’emergenza per l’epidemia di Covid-19 impone provvedimenti eccezionali, ma la Costituzione non va in quarantena. Servirà elaborare soluzioni più compatibili. Con il sistema attuale il Presidente del Consiglio viene di fatto abilitato a stabilire quali limitazioni dei diritti fondamentali possono essere adottate. Uno schema che appare problematico Solo a crisi terminata sarà possibile una valutazione sulla adeguatezza e sulla coerenza di queste misure, considerate nel merito
In un momento di evidente emergenza, come quello causato dalla diffusione in Italia del nuovo coronavirus, interrogarsi sulla compatibilità con la Costituzione delle misure sinora adottate dal Governo potrebbe sembrare un lusso che non possiamo permetterci.
Ma questo approccio al problema, che forse istintivamente è inevitabile, equivarrebbe a mettere la Costituzione in quarantena, muovendo dall’idea che essa vale per i tempi normali e non per quelli eccezionali.
Un’idea, questa, assai risalente, che potrebbe trovare la propria radice ultima nella Dittatura cui i romani facevano ricorso in situazioni di pericolo per la Repubblica, introducendo in quel caso una figura giuridica – il dictator, appunto – che per sei mesi sostituiva i consoli.
Le Costituzioni scritte, dalla fine del Settecento a oggi, hanno ripreso in vario modo questa idea, individuando organi e procedure per la gestione delle situazioni di macro e di micro–emergenza: stati di guerra, stati di assedio, stati di emergenza di vario tipo. In effetti, in tali fasi della vita civile, la forza della Costituzione si attenua, ma nei tempi più recenti si tende sempre più a sottolineare che essa non viene meno, e opera invece in modo diverso rispetto alle situazioni ordinarie.
Le conseguenze principali sono due: una, che attiene alla Costituzione dei diritti, consente la compressione dei diritti fondamentali (ma non, di norma, la loro completa soppressione); l’altra, che concerne la Costituzione dei poteri, individua organi e procedure appositi, diversi da quelli ordinari, per far fronte all’emergenza.
Il Governo italiano ha sinora fatto ricorso a due strumenti. Da un lato ha inquadrato la situazione di emergenza generata dal nuovo coronavirus come un evento igienico–sanitario idoneo a far scattare l’apparato della Protezione civile e ha dichiarato a tal fine lo stato di emergenza sanitaria. D’altro lato, quando il virus ha investito direttamente e drammaticamente alcune parti del territorio italiano, ha adottato un decreto legge (il n. 6 del 2020), che ha individuato una serie di interventi limitativi delle libertà e di altri diritti fondamentali e ne ha rimesso l’attuazione a decreti del Presidente del Consiglio dei ministri. In questo quadro, tre dpcm (sigla che, appunto, indica i decreti del Presidente del Consiglio) si sono susseguiti in pochi giorni, per far fronte all’emergenza.
L’ultimo di essi, datato 9 marzo 2020, regola attualmente la materia richiamando ed estendendo all’intero territorio nazionale quanto stabilito il giorno precedente, 8 marzo, per la Lombardia e alcune province di Piemonte, Veneto, Emilia Romagna e Marche. Letti assieme al decreto legge 6 del 2020, questi decreti hanno messo in campo la più intensa limitazione dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione dal momento in cui questa è in vigore, cioè da 72 anni a questa parte: non è solo limitata la libertà di circolazione, ma anche quella di riunione, così come il diritto all’istruzione, il diritto al lavoro e la libertà di iniziativa economica, nonché, almeno in parte la libertà di manifestazione del pensiero, la libertà religiosa e la stessa libertà personale, pur con una serie di meccanismi di flessibilizzazione dei divieti e delle prescrizioni che in taluni casi li riducono a mere raccomandazioni.
Solo a bocce ferme, vale a dire a emergenza superata, sarà possibile una valutazione sulla adeguatezza e sulla coerenza di queste misure, considerate nel merito. Ed è bene dire fin d’ora che una attenta verifica tecnica dovrà essere compiuta, auspicabilmente da parte di una Commissione tecnica, che sottoponga un rapporto al Parlamento e all’opinione pubblica.
Nel frattempo, ci si può chiedere se le procedure che il Governo ha deciso di seguire siano costituzionalmente corrette. L’Italia, infatti, a differenza della Cina, che ha adottato misure ancor più drastiche nella provincia dell’Hubei, è uno Stato costituzionale di diritto e non un regime totalitario, e anche quanto sta accadendo in questi giorni non può sfuggire al limite costituzionale, anche se è inevitabile che ogni snodo del sistema costituzionale sia messo in tensione in circostanze come quelle attuali, come del resto accade per la vita dei cittadini.
Due osservazioni si impongono. La prima è che le basi costituzionali del sistema di disciplina dell’emergenza regolato dalle norme sulla protezione civile sono fragili. Si tratta infatti di un sistema cresciuto gradualmente nella legislazione ordinaria e riordinato con una riforma dei primi giorni del 2018. Tale sistema, in particolare, è del tutto privo di una fase parlamentare nell’esame della dichiarazione dello stato di emergenza. Esso, inoltre, è stato applicato a una emergenza sanitaria quantomeno stiracchiandone un po’ la portata, dato che le sue norme sono concepite per emergenze di altro tipo (soprattutto calamità naturali). Esso, quindi, non individua i provvedimenti limitativi dei diritti fondamentali e anche per questo il Governo è intervenuto con il decreto legge n. 6 del 2020.
Quanto a tale decreto legge, esso autorizza limitazioni assai invasive ai diritti fondamentali, ma lo fa in maniera generica, sicché tutte le regole sono delegificate, in quanto il loro contenuto è rimesso a decreti del Presidente del Consiglio. Questi ultimi sono sottratti a qualsiasi controllo preventivo, dato che non sono emanati dal Presidente della Repubblica (come decreti legge e regolamenti) e non sono sottoposti a conversione in legge come i decreti legge e quindi non sono soggetti a esame parlamentare.
Il Presidente del Consiglio diventa quindi una specie di dictator, abilitato a stabilire effettivamente quali limitazioni dei diritti fondamentali possono essere adottate. Questo schema appare costituzionalmente problematico e ci si può chiedere se le esigenze di efficacia che hanno spinto a disegnarlo non possano essere soddisfatte con soluzioni procedurali più compatibili con la struttura costituzionale italiana.
Marco Olivetti, professore ordinario di diritto costituzionale Avvenire 15/3/2020
“Per l’esecutivo il vantaggio di una emergenza permanente è che anche le cose banali possono essere realizzate come se appartenessero a uno situazione di emergenza. Se tutto è una situazione di emergenza, tutto il potere è potere di emergenza.”
Garry Wilss (1934), giornalista e storico americano
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