Un giornalista italiano si è applicato, secondo il buon uso della sua professione, a distorcere e falsificare le mie considerazioni sulla confusione etica in cui l’epidemia sta gettando il paese, in cui non si ha più riguardo nemmeno per i morti. Così come non mette conto di citare il suo nome, così nemmeno vale la pena di rettificare le scontate manipolazioni. Chi vuole può leggere il mio testo Contagio sul sito della casa editrice Quodlibet. Piuttosto pubblico qui delle altre riflessioni, che, malgrado la loro chiarezza, saranno presumibilmente anch’esse falsificate.
La paura è una cattiva consigliera, ma fa apparire molte cose che si fingeva di non vedere. La prima cosa che l’ondata di panico che ha paralizzato il paese mostra con evidenza è che la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita.
È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi.
La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa.
Gli altri esseri umani, come nella pestilenza descritta da Manzoni, sono ora visti soltanto come possibili untori che occorre a ogni costo evitare e da cui bisogna tenersi alla distanza almeno di un metro. I morti – i nostri morti – non hanno diritto a un funerale e non è chiaro che cosa avvenga dei cadaveri delle persone che ci sono care. Il nostro prossimo è stato cancellato ed è curioso che le chiese tacciano in proposito.
Che cosa diventano i rapporti umani in un paese che si abitua a vivere in questo modo non si sa per quanto tempo? E che cosa è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza?
L’altra cosa, non meno inquietante della prima, che l’epidemia fa apparire con chiarezza è che lo stato di eccezione, a cui i governi ci hanno abituati da tempo, è veramente diventato la condizione normale.
Ci sono state in passato epidemie più gravi, ma nessuno aveva mai pensato a dichiarare per questo uno stato di emergenza come quello attuale, che ci impedisce perfino di muoverci. Gli uomini si sono così abituati a vivere in condizioni di crisi perenne e di perenne emergenza che non sembrano accorgersi che la loro vita è stata ridotta a una condizione puramente biologica e ha perso ogni dimensione non solo sociale e politica, ma persino umana e affettiva.
Una società che vive in un perenne stato di emergenza non può essere una società libera. Noi di fatto viviamo in una società che ha sacrificato la libertà alle cosiddette “ragioni di sicurezza” e si è condannata per questo a vivere in un perenne stato di paura e di insicurezza.
Non stupisce che per il virus si parli di guerra. I provvedimenti di emergenza ci obbligano di fatto a vivere in condizioni di coprifuoco. Ma una guerra con un nemico invisibile che può annidarsi in ciascun altro uomo è la più assurda delle guerre. È, in verità, una guerra civile. Il nemico non è fuori, è dentro di noi.
Quello che preoccupa è non tanto o non solo il presente, ma il dopo. Così come le guerre hanno lasciato in eredità alla pace una serie di tecnologie nefaste, dai fili spinati alle centrali nucleari, così è molto probabile che si cercherà di continuare anche dopo l’emergenza sanitaria gli esperimenti che i governi non erano riusciti prima a realizzare: che si chiudano le università e le scuole e si facciano lezioni solo on line, che si smetta una buona volta di riunirsi e di parlare per ragioni politiche o culturali e ci si scambino soltanto messaggi digitali, che ovunque è possibile le macchine sostituiscano ogni contatto – ogni contagio – fra gli esseri umani.
Giorgio Agamben, filosofo in www.quodlibet.it 17 marzo 2020
“Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio”
Emiliano Zapata (1879- 1919), rivoluzionario messicano.
Frase pronunciata prima di essere ucciso in un’imboscata il 10 aprile 1919
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