A dettare i nostri comportamenti è un Comitato scientifico le cui direttive sono certificate e legittimate dal governo. Di colpo, i gesti della nostra quotidianità (soffiarsi il naso, salutare con una stretta di mano), la nostra esistenza biologica (la vecchiaia) e la nostra socialità (musei e bocciofile, teatri e palestre) sono diventati oggetto di provvedimenti specifici che li sottraggono alla loro tradizionale sfera privata per scaraventali nello spazio pubblico.
Il tentativo di impadronirsi della «nuda vita» dei propri sudditi è stato il cuore del progetto del totalitarismo novecentesco, del nazismo in particolare: nel delirio di potenza hitleriano l’esistenza biologica degli individui andava pienamente inserita nel circuito della statualità, occasione per l’esercizio di un potere che si saziava umiliando e profanando i corpi delle sue vittime, riducendoli a esseri biologicamente animali. Il lager fu il luogo in cui questo tentativo si mostrò in tutta la sua mostruosità.
Al contrario, nel patto di cittadinanza che sorregge le costituzioni democratiche e liberali, oggetto della sovranità dello Stato è sempre stata non la persona come semplice essere vivente con la sua fisicità corporea, ma soltanto la persona come attore politico.
Ed è proprio questa radice virtuosa della democrazia che oggi viene messa alla prova dal dilagare del coronavirus. La strada imboccata dal governo si fonda su una delega amplissima alla comunità scientifica, riconoscendole un biopotere al quale la politica sembra aver rinunciato in quella che può apparire come una chiara manifestazione di subalternità.
Pure, proprio perché siamo in democrazia, la scienza è a sua volta tutt’altro che monolitica e compatta e gli interventi degli scienziati- dilaniati da dispute accademiche e rivalità mediatiche- spesso aggiungono contraddizioni a contraddizioni, contribuendo alla confusione generale.
In realtà oggi c’è un acuto bisogno di politica, di una politica in grado di ritrovare autorevolezza e credibilità, abbandonando i percorsi che la hanno vista arenarsi sulle secche della fine del Novecento e dal quale ereditiamo un paradosso straniante: a uno Stato sollecitato ad abbandonare tutti gli spazi che lungo l’arco di un secolo si era conquistato intervenendo nel mercato, nella produzione, nell’organizzazione complessiva della convivenza civile, a questo stesso Stato a cui si sono chiesti continui passi indietro provando in tutti i modi a limitarne l’invasività e a ridimensionarne gli interventi, ci si deve necessariamente affidare oggi per fronteggiare l’epidemia.
Ed è anche in base a questo paradosso che si spiega il modo affannoso con cui il governo cerca di destreggiarsi tra le opposte esigenze di tutelare la salute pubblica senza danneggiare la produzione e il mercato.
Queste oscillazioni sono il prezzo che la politica paga agli «opposti estremismi» dell’antipolitica da un lato e del mercato dall’altro.
Una componente significativa del governo giallorosso, quella che viene dai 5 stelle, è in grado di riproporre solo uno scontato «rispecchiamento» con quanto avviene nel mondo dei social, oscillando tra furie ansiogene e sberleffi ironici, tra le bufale delle fake news e i video delle burle; l’altra, incarnata dal Pd, insegue i frammenti dell’illusione di un mercato come di un mondo perfetto in sé, che andava solo lasciato libero di essere se stesso, senza impedimenti.
È però il momento di riscoprire il significato più profondo della politica. In questi anni, a partire dalle riforme del 1992-1993, proseguendo attraverso quella del 1999, la sanità è stata sottoposta a uno stressante processo di «aziendalizzazione, frammentazione, esternalizzazione» che, attraverso una privatizzazione sempre più spinta, ha portato alla riduzione dei letti ospedalieri di ben 70 mila unità.
A differenza del coronavirus, la scarsità di posti per la terapia intensiva oggi non ha quindi niente di «naturale» ma è il frutto di scelte che appartengono integralmente alla congiuntura culturale e sociale che stiamo vivendo; intervenire su queste scelte chiama in causa una politica che proprio nell’emergenza può anche trovare un’occasione di riscatto. «Paiòn traversìe eppur sono opportunità», come diceva Giambattista Vico.
Giovanni De Luna La Stampa 5/3/2020
“Viviamo in una società profondamente dipendente dalla scienza e dalla tecnologia e in cui nessuno sa nulla in merito a tali questioni. Si tratta di una formula sicura per il disastro.”
Carl Sagan (1934- 1996), astronomo, astrofisico e astrobiologo
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