“Io non sono convinto che in questi mesi gli italiani abbiano dimostrato “responsabilità”, “disciplina”, “senso civico”. I nostri concittadini si sono fatti prendere dal panico, si sono lasciati convincere da un’informazione (soprattutto televisiva) sensazionalista, parziale, ispirata al ‘pensiero unico” del male assoluto.”
(da: Terrore sanitario e la gente comune. )
Gli italiani, animali spaventati
Eccoli, a piede libero e mente prigioniera. Fanno tenerezza gli italiani come animali spaventati che si riaffacciano all’aperto guardinghi e mascherati, fuggitivi, pronti a evitare ogni vicinanza o assembramento. Portano finalmente a spasso l’animale che si portano dentro e che era dentro fino a ieri, con la minaccia di tornarci domani. Vivete l’oggi perché del doman non c’è certezza.
Perché insisto a definirli, a definirci animali? Perché l’effetto crudo di questa lunga quarantena e dei presagi funesti che avvelenano la libera uscita, è la riduzione dell’uomo, del cittadino, del pensante e del credente, a puro animale. Il contagio, la quarantena, il terrorismo mediatico-governativo ci hanno ridotto alla sfera della nuda vita.
Nient’altro siamo in questo momento, e qualcuno inneggia al fatto che il virus ci ha resi tutti uguali. Uguali perché ridotti alla sfera animale dei bisogni. Uguali come animali, privi di parola e di visione, di fede e di pensiero, di creatività e ricreazione.
In fondo la restrizione più profonda, non la più dolorosa ma la più profonda, è proprio quella dello sguardo e della nostra mente.
In due mesi abbiamo perso tutto ciò che vagamente chiamavamo spirito, cultura, intelligenza, gusto del vivere. Niente messa e niente chiesa, niente mostre e niente arte, niente dialoghi e niente librerie, niente cinema e niente teatro, niente concerti o sport. E anche ciò che abbiamo la facoltà di fare stando a casa, come leggere e pensare, in fondo non l’abbiamo fatto, impegnati a salvaguardare la pelle, a fare esercizi di ginnastica, poi incollarsi al video per non pensarci, per non pensare.
Le attività sociali e conviviali legate alla sfera alimentare sono state sterilizzate e separate dai bisogni fisiologici: file per i generi alimentari, ai supermercati, alle farmacie, tutto ciò che attiene la vita animale, il corpo, mangiare, bere, curarsi. E tutte separate dalla sfera conviviale.
Anche il cibo da asporto, è la riduzione a nuda vita del nutrirsi, a patto di non stare insieme, non avere compagni (cum-panis) di cena. La riduzione biologica è stata anche riduzione individuale, solo atomi in solitudine. Rispetto agli animali abbiamo perso il branco e l’aria aperta.
La restrizione mentale è stata adottata e accettata per precauzione, per giusti motivi sanitari; per tutelare i corpi, per salvaguardare la “nuda vita”, come dice Giorgio Agamben.
Senza accorgercene abbiamo optato per la pura dimensione biologica della nostra vita, azzerando ogni altra dimensione. “Propter vitam vivendi perdere causas”, diceva Giovenale; ovvero, per salvare la vita perdiamo le ragioni della vita stessa.
Per conservarci biologicamente smettiamo di curarci dei motivi che rendono la vita degna di essere vissuta. Tra cui la religione, il pensiero, l’arte, la scienza (se non quella balbettante, applicata alla salute), la fede, la comunità, la politica. E le grandi agenzie spirituali, a partire dalla Chiesa, si allineano e danno la precedenza alla pura vita, alla difesa dell’animale. Meglio un animale sano che un santo malato.
Pure la politica è scomparsa, o quantomeno è sospesa. Al suo posto c’è quella che Georges Bataille e poi Michel Foucault chiamarono Biopolitica. Ossia la politica applicata alla sfera dei corpi e alla loro salute.
Anzi, a essere brutali, più che biopolitica chiamiamolo biopotere, ossia potere assoluto nel nome della vita e della morte; ogni procedura, ogni restrizione, ogni divieto è ammesso per salvaguardare il bene supremo, che non è salus populi, la salute del popolo ma di ciascuno.
È il potere che garantisce la vita, basta seguire scrupolosamente le norme indicate. Il potere bio-totalitario riesce a isolare i cittadini e li induce a optare tra la vita e la morte. Ho già criticato nel merito queste norme, le intenzioni, i calcoli e i profitti, il terrorismo psicologico che le accompagna e la strategia del protrarre.
Ma non è di questo che sto ora parlando. È l’impoverimento della nostra vita ridotta a fisicità. Tosse, starnuto, prelievo, corsetta, controllo, tampone, mascherina: un ventaglio di paradigmi e di prescrizioni fisiche ha sostituito il nostro lessico, riducendolo solo alla sfera corporale.
Condivido la previsione di Michel Houellebecq che la pandemia non produrrà capolavori. Anche se tutti speriamo in uno solo, la scoperta del vaccino; ma torniamo alla riduzione biologica della vita.
In un’epoca tecnologicamente avanzata come la nostra, la biopolitica tende a farsi psicopolitica, come sostiene il coreano Byung-Chul Han, ossia il potere che plasma e seduce le menti; ma col contagio la seduzione ha ceduto il passo a una più perentoria e brutale prescrizione, anche se il procedimento mentale innescato è sempre lo stesso: interiorizzare le norme del sistema perché servono alla nostra sopravvivenza.
È inquietante l’incipit del filosofo coreano: “La libertà sarà stata un episodio”, cioè solo una fase di passaggio. Perché la libertà ha senso se è relazione, se è comunità, altrimenti è solo spazio vuoto, prigione senza muri. E poi aggiunge che il segno della nostra servitù è il passaggio dal raccontare al contare. Contano solo i dati, non le storie. È la dittatura del numero, di cui la Cina, con le sue tecnologie, è l’alfiere.
Il lascito peggiore di questa pandemia sul piano della dignità umana, è proprio questo immiserirsi del nostro orizzonte, piegati a difendere la nuda vita. E naturalmente non con l’inavvertenza, l’incoscienza, il puro istinto dell’animale, ma con la paura, il timore di essere catturati dal virus, il rifiuto del prossimo che si fa remoto, come i morti e il passato che non torna più.
Eppure era bella ieri sera la luna piena nel cielo pulito e sul mare proibito di maggio…
Marcello Veneziani, filosofo La Verità 8/5/ 2020
Houellebecq: la pandemia ci renderà tutti peggiori
Lettera dello scrittore francese ai microfoni della radio France Inter: “Mai era stato espresso con tanta assenza di pudore il fatto che la vita di tutti non ha lo stesso valore”
«Non credo alle dichiarazioni del tipo `nulla sara´ mai più come prima’»: lo scrive, esprimendosi per la prima volta dopo l’inizio della pandemia, lo scrittore francese Michel Houellebecq, in una lettera pubblicata e letta ai microfoni della radio France Inter.
Per Houellebecq, «dire cose interessanti non è facile, perché questa epidemia è riuscita nell’impresa di essere al tempo stesso angosciante e noiosa.
Un virus banale, accostato in modo poco brillante ad oscuri virus influenzali, dalle condizioni di resistenza poco note, dalle caratteristiche confuse, benigno e mortale al tempo stesso, neppure trasmissibile sessualmente: insomma, un virus senza qualità. Quest’epidemia avrebbe anche potuto fare qualche migliaio di morti al giorno nel mondo, ma avrebbe prodotto l’impressione di un non-avvenimento».
Houellebecq passa poi a spiegare uno degli aspetti che alcuni suoi colleghi che hanno commentato l’epidemia «dimenticano di considerare: uno scrittore ha bisogno di camminare»: «provare a scrivere se non si ha la possibilità, durante la giornata, di abbandonarsi a diverse ore di marcia a un ritmo sostenuto, è da sconsigliare fortemente: la tensione nervosa accumulata non riesce a dissolversi, i pensieri e le immagini continuano a girare dolorosamente nella povera testa dell’autore, che diventa in breve irritabile, o impazzisce».
Per l’autore de «Le particelle elementari», non è vero che nulla sarà come prima, «al contrario, tutto resterà esattamente uguale. Lo svolgimento di questa epidemia è chiaramente normale. L’Occidente non è in eterno, per diritto divino, la zona più ricca e più sviluppata del mondo; tutto questo è finito già da qualche tempo, non è uno scoop.
Se si esamina nei particolari, la Francia se la cava un po’ meglio della Spagna e l’Italia, ma meno della Germania; anche qui, niente grosse sorprese. Il coronavirus, al contrario, dovrebbe avere come principale risultato l’accelerazione di alcune mutazioni in corso.
Da diversi anni, l’insieme delle evoluzioni tecnologiche, che siano minori o di primo piano, (telelavoro, social network, acquisti su Internet), hanno avuto come conseguenza principale (o obiettivo?) la diminuzione dei contatti materiali, e soprattutto umani. L’epidemia di coronavirus offre una magnifica ragion d’essere a questa pesante tendenza: una certa obsolescenza che sembra colpire le relazioni umane».
Fra gli altri aspetti analizzati dallo scrittore, il senso del «tragico, la morte, la conclusione», che rappresentano però «una tendenza ormai da mezzo secolo»; e «l’importanza assunta in queste settimane dall’età dei malati. Fino a quando conviene rianimarli e curarli? 70, 75, 80 anni? Dipende, a quanto sembra, dalla regione del mondo in cui si vive; mai, in ogni caso, era stato espresso con tanta assenza di pudore il fatto che la vita di tutti non ha lo stesso valore; che a partire da una certa età (70, 75, 80 anni?), è un po’ come se si fosse già morti».
«Queste tendenze – conclude Houellebecq – l’ho detto, esistevano già prima del coronavirus; si sono soltanto manifestate con una nuova evidenza. Non ci risveglieremo, dopo il lockdown, in un nuovo mondo; sarà lo stesso, ma un po’ peggio».
La Stampa 5/5/ 2020
«Quella nuda vita (la creatura umana) che, nell’Ancien Régime, apparteneva a Dio e, nel mondo classico, era chiaramente distinta (come zōē) dalla vita politica (bios), entra ora in primo piano nella cura dello Stato e diventa, per così dire, il suo fondamento terreno.
Stato-nazione significa: Stato che fa della natività, della nascita (cioè della nuda vita umana) il fondamento della propria sovranità. Nel sistema dello Stato-nazione, i cosiddetti diritti sacri e inalienabili dell’uomo si mostrano sprovvisti di ogni tutela e di ogni realtà nel momento stesso in cui non sia possibile configurarli come diritti dei cittadini di uno Stato.»
Giorgio Agamben (1942), filosofo. Testo preso da “Homo sacer” (1995)
“È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa.”
Giorgio Agamben, in: Chiarimenti
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