Non c’è nulla, o quasi, di più atroce delle feste “nataline, capodanniche e befaniche” al tempo del dominio dittatoriale del progetto globale criminale chiamato Grande Reset.

Queste feste, queste “magnate”, queste “familiate”, questi profluvi di retorica sentimentaloide oggi sono il trionfo, ancor più che in decenni e secoli precedenti, della mefitica resilienza ( leggi QUI e QUI) dei servi, delle vittime e degli oppressi, resilienza tanto auspicata, sorretta ed incoraggiata dall’aristocrazia finanziaria-usuraia: l’èlite di miliardari, finanzieri e banchieri che nelle viscere oscure del deep state globale programma, dirige e organizza dittature pseudo-sanitarie, pseudo-ecologiche, pseudo-ambientali e digitali attraverso un intreccio diabolico di continue emergenze create ad hoc per asservire, addomesticare, impaurire in vista della “governance” mondiale, a cui quell‘èlite di criminali aspira ( leggi assolutamente QUI).

Anche negli anni di Pasolini lo stesso deep state agiva per asservire la gente al consumismo più sfrenato e alla mediocrità più devastante ( attraverso i media, proprio come oggi), anticamere di ciò che in questi ultimi cinque anni sta accadendo. E Pasolini dedicò tutto il suo genio e la sua passione profetica-laica per denunciare ciò che “vedeva” e che gli stupidi non vedevano e non volevano vedere. Proprio come oggi.

Speriamo che i due articoli di Pasolini, scritti nel 1969 e nel 1970, che vi proponiamo ci aiutino ancor più a “capire” cosa si nasconde dietro “l’atroce Natale” tanto voluto e benedetto dalla politica asservita, dalle chiese asservite, dal tradizionalismo sociale e familiare becero, dal covidiotismo e, soprattutto, soprattutto da un èlite sogghignante, sghignazzante e ridacchiante alla faccia nostra e delle nostre “feste” resilienti. (GLR)

 

 

 

Festività e consumismo
(Tempo, n.1 anno XXXI, 4 gennaio 1969)

Sono tre anni che faccio in modo di non essere in Italia per Natale. Lo faccio di proposito, con accanimento, disperato all’idea di non riuscirci; accettando magari di oberarmi di lavoro, di rinunciare a qualsiasi forma di vacanza, di interruzione, di sollievo.

Non ho la forza di spiegare esaurientemente al lettore di Tempo il perché. Ciò implicherebbe il dare la violenza della novità a vecchi sentimenti. Ossia una prova “stilistica” superabile solo attraverso l’ispirazione poetica. Che non viene quando si vuole. Essa è un genere di realtà che appartiene al vecchio mondo, al mondo dei Natali religiosi: e risponde ancora alla sua vecchia definizione.

Mi rendo ben conto che anche quand’ero bambino io, le feste natalizie erano una cosa idiota: una sfida della Produzione a Dio. Tuttavia, allora, io ero ancora completamente immerso nel mondo “contadino”, in qualche misterioso paese tra le Alpi e il mare, o in qualche piccola città di provincia (come Cremona, Scandiano). C’era un filo diretto con Gerusalemme. Il capitalismo non aveva ancora “coperto” del tutto il mondo contadino, da cui derivava il suo moralismo, del resto, e su cui fondava del resto, ancora, il suo ricatto: Dio, Patria, Famiglia. Tale ricatto era possibile perché corrispondeva, negativamente, come cinismo a una realtà: la realtà del mondo religioso sopravvivente.

Ora il nuovo capitalismo, non ha affatto bisogno di quel ricatto – se non ai suoi margini, o in isole sopravviventi, o nell’abitudine (che si va estinguendo). Per il nuovo capitalismo, che si creda in Dio, nella Patria o nella Famiglia, è indifferente. Esso ha infatti creato il suo nuovo mito autonomo: il Benessere. E il suo tipo umano non è l’uomo religioso o il galantuomo, ma il consumatore felice d’esser tale.

Quando ero bambino, dunque, il rapporto tra Capitale e Religione (nei giorni di Natale) era atroce ma reale. Ora tale rapporto non ha più ragione di essere. È puramente assurdo. È forse questa assurdità che mi angoscia e mi fa fuggire. (In Paesi maomettani). La Chiesa (in Italia, quando io ero bambino, sotto il fascismo) era asservita al Capitale: ne era strumentalizzata, ed essa si era resa strumento del potere. Aveva regalato alle grandi industrie un bambinello tra un asinello e una vaccherella. Del resto, non marciava sotto le bandiere di Mussolini, di Hitler, di Franco, di Salazar? Ora, però, la Chiesa mi pare, in un certo senso, ancora più asservita di prima al Capitale.

Infatti prima, la Chiesa, si salvava in quel tanto di autentico che c’era nel mondo preindustriale e contadino (e in quel tanto di artigianale che permaneva nelle vecchie industrie): ora invece, essa non ha contropartita. Non può nemmeno dire di strumentalizzare a sua volta il Capitale: infatti il Capitale strumentalizza la Chiesa solo per abitudine, per evitare guerre religiose, per comodità. In realtà, la Chiesa non gli serve più. Se essa non ci fosse, esso ne potrebbe fare a meno. Ora, in casi del genere, la strumentalizzazione deve essere reciproca, perché serva a tutti e due. A questo punto la Chiesa dovrebbe perciò distinguere le proprie festività (se ancora, arcaicamente ci tiene) da quelle del Consumo.

Dovrebbe distinguere, per dirla tutta, l’ostia dai panettoni. Questo embrassons-nous tra Religione e Produzione è atroce. E infatti quello che ne consegue è intollerabile alla vista e a tutti gli altri sensi.

Certo, in realtà Natale è un’antica festa pagana (la nascita del sole) e come tale era originariamente allegra: può darsi che questa ancestrale allegria abbia ancora bisogno, stagionalmente, di esplodere in un uomo che sta per dissodare il Sahara con mostri meccanici. Ma allora, questa festa pagana ritorni pagana: la sostituzione della natura industriale alla natura naturale, sia completa, anche nelle feste. E la Chiesa se ne distingua. Essa non può più essere contadina e ignorante: non può più fingere di non sapere che la festa natalizia è appunto una antica festa celebrata in pagis, pagana, e che l’amalgama è arcaico e medioevale. La tradizione dei presepi e degli alberi di Natale, deve essere abolita da una Chiesa che voglia sopravvivere nel mondo moderno. E questo non devono saperlo solo dei preti eccentrici, progressisti e colti.

Come festa pagana-neocapitalistica il Natale sarà comunque sempre atroce.

È un ersatz ( surrogato, in tedesco)– con gli week-end, e le altre feste affini – della guerra. Nasce in questi giorni una psicosi che è decisamente bellica. L’aggressività individuale si moltiplica. Aumenta vertiginosamente il numero dei morti. È una vera strage. Si dice: molti Vietnam. Ma i molti Vietnam ci sono. Appunto, in queste occasioni festive: in cui la festa è l’interruzione di un’abitudine allo sfruttamento, all’alienazione, al codice, alla falsa idea di sé: tutte cose che nascono dal famoso lavoro, che è rimasto quello cui inneggiavano i cartelli nei campi di concentramento di Hitler.

Da tale interruzione, nasce una falsa libertà, in cui esplode un arcaico istinto di affermazione. E ci si afferma, aggressivamente, attraverso una feroce concorrenza, facendo nel modo più medio le cose più medie.

Sì, è una nota terribile al Natale, che ho fatto. E non ho nulla da concedere a niente. Niente bonarietà. Niente addolcimenti. Le cose stanno così. È inutile nasconderlo, anche poco.

 

 

 

Tanti auguri!
(Tempo, n.1 anno XXXII, 3 gennaio 1970)

Siamo arrivati all’insopportabile Natale. Non ho niente da aggiungere a quanto dicevo un anno fa, qui, contro questa festa stupida e irreligiosa.

Tanti auguri ai fabbricanti di regali pagani! Tanti auguri ai carismatici industriali che producono strenne tutte uguali!

Tanti auguri a chi morirà di rabbia negli ingorghi del traffico e magari cristianamente insulterà o accoltellerà chi abbia osato sorpassarlo o abbia osato dare una botta sul didietro della sua santa Seicento!

Tanti auguri a chi crederà sul serio che l’orgasmo che l’agiterà – l’ansia di essere presente, di non mancare al rito, di non essere pari al suo dovere di consumatore – sia segno di festa e di gioia!

Gli auguri veri voglio farli a quelli che sono in carcere, qualunque cosa abbiano fatto (eccettuati i soliti fascisti, quei pochi che ci sono); è vero che ci sono in libertà tanti disgraziati cioè tanti che hanno bisogno di auguri veri tutto l’anno (tutti noi, in fondo, perché siamo proprio delle povere creature brancolanti, con tutta la nostra sicurezza e il nostro sorriso presuntuoso).

Ma scelgo i carcerati per ragioni polemiche, oltre che per una certa simpatia naturale dovuta al fatto che, sapendolo o non sapendolo, volendolo o non volendolo, essi restano gli unici veri contestatori della società. Sono tutti appartenenti alla classe dominata, e i loro giudici sono tutti appartenenti alla classe dominante.


 

 

 

 

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