Le acque del Mar Dolciastro che invadono i giorni del Natale si vanno ritirando. E mentre il calendario liturgico prepara la festa dei Santi Innocenti, l’equivoco culturale e spirituale soggiacente alla periodica inondazione sentimentale si palesa. I vangeli di Luca e di Matteo che si leggono in questi giorni iniziano con due prologhi tragici: le sequenze che dalle doglie di Betlemme alla strage degli innocenti vogliono avvisare l’ascoltatore che l’irriducibile conflitto fra un potere carnefice e la vittima inerme è la cifra della vita di Gesù.
E chiederanno a ciascuno un gesto radicale: non di credere in Dio, ma di essere come Dio; fra vittima e carnefice non restare indifferenti e prendere posizione. Tali brani evangelici hanno avuto un destino liturgico che ha accompagnato la nascita del Natale.
Entrato nel calendario della chiesa, di Roma a piccoli passi (Tertulliano e Ireneo di Lione la ignorano), il Natale andò a posizionarsi fra III e IV secolo sui saturnali del solstizio d’inverno: si collocò al 24/25 dicembre, che l’imperatore Aureliano aveva dedicato al Sol Invictus. Nell’impero cristianizzato il Natale perse così la sua forza eversiva e diventò la riprova del potere della chiesa sul tempo e le sue scansioni.
Quell’appropriarsi del calendario, trova nella post-modernità la sua nemesi. Perché se il Natale è “scalabile”, è perché la predicazione cristiana ne ha perso il significato. Cosi il 25 dicembre strappato ai pagani è stato riconquistato dalle nostalgie dell’infanzia, dalla iniziazione consumista dei bambini e dal marketing del dono.
A questo non vuole rinunciare nessuno: mentre la festa cristiana per eccellenza, la Pasqua, interessa solo i credenti e non porta in sé altro significato, del Natale nessuno vuole fare a meno anche a costo di pagare un prezzo. La cultura secolarizzata infatti può così abitare questi giorni con laici canditi e riti domestici: ma deve accettare che i segni religiosi si approprino di tutti gli spazi simbolici.
Dal canto loro le autorità religiose possono godere di questa egemonia simbolica che le viene consegnata con sincera remissività: a patto però di non farsi scappar detto che questa festa non è bianca come lo zucchero del pandoro, ma rosso sangue: il sangue della puerpera profuga, degli innocenti uccisi dal pogrom, della circoncisione di Gesù, della fuga dei disperati.
È per questo che quando Francesco predica il vangelo del Natale, i siti di tutto il mondo sentono una esortazione alla bontà e non una denuncia del male che ci abita, ci percuote e ci accompagna verso una guerra: o quella a capitoli che conosciamo, o una rilegata come nel Novecento, più classica.
Questo male e la guerra che prepara si nutrono di tre mancanze politiche: la mancanza di una visione del vicino oriente che non si illuda che dopo la “liberazione” di Aleppo ( “ubisolitudinem faciunt, pacem appellant”) il cratere della guerra non lancerà altri lapilli; la mancanza di un “noi” europeo, denunciato in queste ore dalla malaugurante competizione nazionale fra orgogli delle polizie; la mancanza di lungimiranza sia nelle destre che seminano odio e paure sia nelle sinistre che pensano di doverne seminare solo un po’ meno o in altro modo.
Ma il male si nutre anche della dimenticanza cristiana dell’attesa e del dramma del Natale. Se, paghi d’una egemonia dei simboli, i credenti renderanno il gesto di Dio un sentimento o una virtù individuale, il mondo sarà più buio e più in pericolo.
Alberto Melloni La Repubblica 28/12/2016
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