Occorre sostituire la forza emotiva con la consapevolezza. Che cosa ha trasformato un popolo di oltre 40 milioni di cittadini liberali in un popolo di fascisti?

Antifascimo..? E che cos’è…? Può dispiacere a quanti sono cresciuti nei valori della Resistenza, ma è indubbio che nella cultura delle nuove generazioni antifascismo è una categoria marginale, scarsamente utilizzata nel dibattito politico e pressoché assente nel linguaggio comune. D’altra parte, la stessa eclisse riguarda la categoria opposta, fascismo: durante l’ultima campagna elettorale i termini sono stati talvolta rispolverati ma i risultati elettorali di Leu e di Casa Pound sono eloquenti. Non è sulla dicotomia fascismo-antifascismo che si costruisce oggi un’identità politica.

Al di là di qualsiasi rimpianto o dietrologia, il fatto non deve stupire: la memoria dei “momenti forti” della storia dura lo spazio di due generazioni, quella che ne è protagonista e quella successiva, educata dai racconti e dall’atmosfera culturale nella quale cresce. È stato così per chi è nato nell’Italia degli Anni 50-60: le ferite della guerra erano fresche, ogni famiglia aveva un ricordo, un episodio, una rabbia, frammenti individuali che si ricomponevano nei discorsi per descrivere un passato che non passava. Chi era stato in montagna parlava degli scontri durante i rastrellamenti e degli attacchi partigiani in pianura; chi era stato nella Rsi bestemmiava (sottovoce) contro i convertiti dell’ultima ora e i traditori; chi non era stato né da una parte né dall’altra raccontava di bombardamenti, di mercato nero, di pane tesserato, di paura.

E chi aveva combattuto al fronte, descriveva il gelo del Don, o la sabbia infuocata di El Alamein, o i campi di internamento della Germania. Quando la società italiana è stata attraversata da una nuova stagione di conflittualità (dal ’68 all’“autunno caldo”, a tutti gli Anni 70) è stato naturale attingere a quella memoria e trasformarne le categorie in ambiti identitari: da un lato la sinistra extraparlamentare, che rivendicava l’eredità di una “Resistenza tradita” e inglobava nel suo contraddittorio patrimonio ideologico l’azionismo accanto al marxismo; dall’altro i “fasci”, che dall’esperienza estrema di Salò traevano i principi dell’onore e della “bella morte” e da quella complessiva del Ventennio i valori dell’ordine e della patria; dall’altro ancora le forze dell’arco parlamentare, che rivendicavano il carattere inclusivo dell’antifascismo traendone legittimazione storica.

Sottotraccia negli Anni 80, l’antifascismo è tornato prepotentemente sulla scena nel 1994, dopo la vittoria di Berlusconi: lo sdoganamento del Msi diventato An, l’affermazione di un uomo “forte” per personalità e per mezzi, la concentrazione nelle stesse mani dei maggiori mezzi di comunicazione, hanno portato alla riscoperta dell’antifascismo come ancoraggio di una sinistra scossa dal risultato elettorale: la manifestazione del 25 aprile a Milano in piazza del Duomo è stata l’espressione vigorosa di una volontà di opposizione che proprio nel ricordo della Resistenza trovava denominatori comuni.

Si trattava, però, di una reazione difensiva, che non sapeva coniugare la memoria al progetto. Il carattere culturalmente perdente di quell’operazione era implicito nella mancanza di reazione ideologica: alla chiamata in piazza in nome dell’antifascismo non corrispondeva una mobilitazione di segno opposto. Chi aveva vinto le elezioni, non rispondeva sul terreno dell’ideologia, ma avviava il proprio percorso insieme scaltro e farraginoso di governo: ai perdenti la storia e la nostalgia del passato, ai vincitori il potere e la presunzione del futuro.

I 25 anni successivi sono troppo noti per ripercorrerli: lo sfumare progressivo delle ideologie, l’esaurirsi della progettualità politica, i limiti di una classe dirigente inadeguata, il disagio diffuso espresso con un voto in cui è assai più chiaro ciò che non si vuole rispetto a ciò che si vuole.

Nel momento in cui il M5S pensa di allearsi in alternativa con la Lega di Salvini o con il Pd di non si sa chi, in cui lo stesso Pd oscilla tra l’Aventino, l’ammucchiata con il centrodestra o l’apertura al grillismo, in cui è difficile per qualunque elettore orientarsi nell’evanescenza delle polemiche, l’antifascismo appare una categoria desueta. E, probabilmente, lo è davvero.

Quando finisce la “memoria” bisogna però fare spazio alla “storia”, sostituire la forza emotiva con la consapevolezza. Come ha fatto l’Italia ad arrivare alla deriva del 1940-45? Che cosa ha trasformato un popolo di oltre 40 milioni di cittadini liberali in un popolo di fascisti?

Che cosa ha portato il Paese ad accettare le leggi razziali e ad applaudire il Duce quando ha annunciato l’ingresso in guerra? L’Italia del 1945 ha voluto immaginarsi vincitrice della guerra e ha rielaborato il passato in modo funzionale: il fascismo come filo di ferro che tiene insieme il popolo con la repressione, la responsabilità esclusiva di Mussolini e di Vittorio Emanuele III, la verginità recuperata grazie allo sforzo collettivo della Resistenza partigiana, la fretta di voltare pagina e ripartire senza fare i conti con il passato.

Non è andata così: la Resistenza non è stata una guerra di popolo, ma la scelta di una minoranza (come ha scritto Rosario Romeo, “la lotta di pochi dietro cui si sono nascosti i tanti per nascondere le proprie colpe”). E il fascismo non è stato solo autoritarismo e soppressione delle libertà: è stato anche un regime che ha costruito un evidente consenso di massa, che attraverso il controllo della scuola ha modellato gli italiani secondo il proprio modello di uomo e con la manipolazione dell’informazione ha sedotto una generazione intera.

Soprattutto, il fascismo non è figlio di Mussolini e di un manipolo di gerarchi, ma di un’intera classe dirigente nazionale. Dov’erano, nel Ventennio, i professori, i giornalisti, i compilatori dei testi scolastici? Dov’erano i dirigenti della burocrazia statale, i responsabili delle forze armate, i magistrati? Dov’erano i grandi poteri economici-finanziari?

Ancora oggi, nei licei, si spiega che Mussolini nel 1931 ha obbligato i professori universitari a giurare fedeltà al regime e si ricordano i 13 docenti che hanno osato rifiutare, perdendo la cattedra. Giusto ricordo, si tratta di esempi di coerenza e di coraggio civico. Però bisogna anche spiegare che in quell’anno i docenti universitari in servizio erano 1.848: se 13 hanno detto “no”, 1.835 hanno detto “sì”. È questo il dato utile per capire il posizionamento del mondo accademico: altrimenti il valore dei 13 finisce con il mascherare il cedimento di tutti gli altri.

Fare “storia” dell’Italia fascista significa cogliere le tante complicità di cui il potere ha potuto giovarsi, della corresponsabilità di un’intera classe dirigente: il fascismo nella forma storica non è all’ordine del giorno, ma le dinamiche che ne hanno permesso l’affermazione non sono tramontate e possono determinare altre derive. E fare storia dell’antifascismo resistenziale non significa raccontare un’improbabile guerra di popolo, ma la forza di un impegno e di una testimonianza.

Come recita una delle più famose poesie di Brecht, “hanno portato via egli ebrei e non ho detto nulla perché non ero ebreo; / poi hanno portato via i comunisti e non ho detto nulla perché non ero comunista; / poi hanno portato via i sindacalisti e non ho detto nulla perché non ero sindacalista; / poi hanno portato via me e non c’era più nessuno che potesse dire qualcosa”. L’antifascismo resistenziale è stato soprattutto questo: fare in modo che qualcuno potesse ancora dire qualcosa.

In questo senso, l’antifascismo può essere tramontato nel linguaggio politico, ma non nelle consapevolezze della storia e non nei doveri della coscienza civica.

Gianni Oliva, storico         Il Fatto   23 aprile 2018

 

Il libro:  Gianni Oliva, La grande storia della Resistenza,  ed. UTET  2018,  € 25

 

Vedi:  Le mie speranze perdute dopo la Liberazione

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25 aprile e 1 maggio le feste orfane


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