Prendetevi tutti i canti popolari di identificazione e di orgoglio che hanno a che fare con la solidarietà. Il popolo è sempre uno. Quale popolo? È il popolo di cui fai parte tu e di cui facciamo parte tutti. L’umanità è una sola. Persino se ci sono confini (nella mente di alcuni le condizioni del mondo sono ancora arretrate), la gente di là è la stessa della gente di qua. È il popolo, che vuole pace, giustizia e – quando c’è un po’ di smobilitazione dalla celebrazione del popolo in quanto luogo giusto per proteggere ed essere protetti – fare l’amore.

In questa versione, che è stata sul punto di prevalere, dopo la Seconda guerra mondiale e la fondazione dell’Unione europea, “popolo” significa noi. Popolo non è chi chiede o chi implora. E non è chi serve e obbedisce. Popolo è chi dignitosamente si definisce (noi, tutti insieme, che mandiamo avanti la baracca) consapevole del suo peso e del suo valore, e parla (nelle canzoni popolari e nelle poesie della cultura alta) come chi sa che deve essere rispettato.

Un popolo non è i popoli perché non ha nessuno a cui fare la guerra, nessuno da far soffrire, nessuno da mettere sotto, nessuno da servire, nessuno da abbandonare, respingere o disprezzare.

A volte si dice, come nella grande marcia del G8 (2001) “A nome di tutti i popoli”. Quella frase ammette la lontananza ma non la differenza, e non intende altro che inclusione. È vero che la frase “proletari di tutto il mondo unitevi” si è sprigionata, nell’altro secolo, come canto di guerra (guerra di classe). Ma la persuasione e la motivazione di fondo era la stessa: una sola gente, un solo popolo, e bisognava, semmai, liberarsi da chi ci divide per interessi propri. Il grido, benché guerresco, invocava inclusione. L’inclusione è il vivere insieme.

I concetti di globalismo o mondialismo come opposti alle frontiere e dunque come apparente invito a una collaborazione universale, è un rovesciamento del gioco. Sono cambiate le modalità dei profitti e degli incassi, e “mondializzazione” va bene per pagare dovunque un po’ meno e tener ferma la gente abbassando l’orizzonte del mondo che si fonda di nuovo sull’esclusione.

L’esclusione serve per non creare disordine di razze, di culture, di religioni. Ricordate le immense carovane di ragazzi che a suon di musica sacra, di musica libera e di canti politici, hanno fatto di Genova, nel 2001, la capitale di una corsa giovane verso un mondo di tutti con mille culture, una corsa fermata risolutamente nel sangue? Una domanda pesante resta senza risposta. Perché tanta violenza e vero odio di Stato verso i ragazzi che allegramente gridavano “No global” (e intendevano dire “tu accetti la mia cultura e io accetto la tua”) a opera di una polizia speciale che celebrava con furia e con crudeltà il passato (confini chiusi, respingimenti, morti per abbandono) e preannunciava un mondo rigorosamente diviso da confini e fili spinati difesi dai “popoli”?

La pesante rivelazione di oggi (dall’Italia a Orbàn, dal gruppo di Visegrad a Trump) è che tutto è avvenuto e sta avvenendo in un grande gioco a carte truccate. Ma qualcosa siamo costretti a capire. Il sintomo chiave è quando il popolo diventa “i popoli”. I popoli (anche questo insegnano le canzoni, ma parliamo di un altro tempo e di un regime che credevamo finito per sempre) sono legioni in marcia.

Le legioni sono sempre dirette a una conquista e a una guerra, che non vuol dire vittoria. Non c’è da vincere niente. Vuol dire l’eliminazione dei deboli. I popoli non sono l’altro te stesso. Sono il nemico che ti fa chiudere la frontiera, in attesa di attacchi per cui devi tenerti pronto.

Dove, quando è avvenuto un cambio di economia che ci ha portati di colpo a vivere in una Repubblica di Weimar senza saperlo, e ci ha reso pronti a disprezzare (qui da noi, in tutta Europa, negli Usa, in quello che chiamavamo il mondo libero) costituzioni e democrazia, in cerca di gogne, condanne, leggi razziali e punizioni?

La storia delle vaccinazioni è una buona metafora. Il virus che ci ha colpiti è la corruzione, fondata sulla persuasione che la ricchezza, se non è grande non conta, se non è mia non serve. Rubano giudici, guardie, ladri e politici, come se tutti fossero pervasi dal febbrile timore che resti ormai poco tempo. O rubi adesso o mai più.

La corruzione porta tutti, a cominciare dai media più potenti, a tacere, a non denunciare. Ha travolto un mondo benestante, lo ha separato con disprezzo dalla povertà e da chi, migrando e rischiando, ha pensato (persino il presidente dell’Inps si era sbagliato), che il lavoro sia la salvezza, e che tutti contano, fino all’ultimo annegato.

Ci dicono che è tempo di smetterla con questa superstizione della salvezza degli altri. È l’ora di capire che sono salvo solo se sono ricco, molto ricco, ancora più ricco. È lì, a questo punto (se ne renda conto Cantone) che finisce la Storia. Avrete notato che la corsa si è accelerata.

Furio Colombo         Il Fatto 8 luglio 2018

 

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