E gli italiani si ripresero la sovranità. La tesi dello storico Giuseppe Filippetta: la Costituzione «dei fucili» anticipò quella dei partiti
Alla base della nostra Costituzione ci sono i lavori dell’Assemblea Costituente che recepirono le indicazioni dei partiti politici, ricostituitosi dopo venti anni dittatura; prima della verifica elettorale del 2 giugno 1946, i partiti trovarono la loro legittimazione nella Resistenza e nella lotta armata contro i nazisti e i fascisti; la ottennero grazie all’efficacia del rapporto che furono in grado di instaurare con le bande partigiane e con le istanze di sovranità dal basso che furono da esse avanzate; queste istanze furono il frutto della scelta di impugnare le armi che – nello sfacelo dello Stato seguito all’8 settembre 1943 e nell’assenza di una sovranità statuale accettata e riconosciuta – portò decine di migliaia di italiani a riappropriarsi della propria sovranità individuale, così da attribuire alla loro esperienza armata un immediato e spontaneo «potere costituente»
Tutto cominciò l’8 settembre
L’estate che imparammo a sparare, il libro di Giuseppe Filippetta in uscita giovedì per Feltrinelli (pp. 300, € 22), scandisce questi passaggi, proponendo un’interpretazione della lotta partigiana innovativa sul piano storiografico, originale su quello giuridico. La sua tesi infatti è che la Costituzione «dei fucili» anticipò quella dei partiti, ne scolpì i caratteri originari e, anche se fu recepita solo parzialmente nel testo definitivo, si propone oggi come il lascito civile e istituzionale più significativo della Resistenza.
Per argomentare questa posizione, si affida a una ricognizione attenta e partecipe di tante storie personali «minuscole e potenti, grandiose e comuni, differenti e uguali», scruta nelle fonti più disparate, quelle letterarie e quelle «ufficiali», oltre a studiare con grande efficacia il dibattito che coinvolse allora i giuristi, complessivamente orientati a trascurare la portata costituzionale della lotta partigiana.
Tutto cominciò quindi l’8 settembre 1943. Nel vuoto istituzionale e politico spalancatosi dopo la dissoluzione dell’esercito regio, chi decise di combattere, armato, contro i tedeschi e i fascisti, scelse la strada di un impegno volontario e pieno di rischi, dando inizio a un percorso in cui i singoli individui si riappropriarono della libertà, ma soprattutto di una sovranità non più delegata a uno Stato che non c’era più.
Fu una scelta che portò a riconquistare anche la propria autonomia individuale, nutrita dalla consapevolezza di poter decidere da soli il proprio destino e quello degli altri. In questo senso, i partigiani furono non politicamente, ma «giuridicamente» rivoluzionari.
L’inizio del nuovo Stato
Queste spinte trovarono un loro primo ambito organizzativo nella banda partigiana. Anni orsono, un grande storico come Guido Quazza la definì un «microcosmo di democrazia diretta», insistendo sul rapporto di fiducia tra i comandanti e i propri uomini, sottolineandone le differenze con la disciplina del vecchio esercito sabaudo; oggi Filippetta precisa quella definizione, indicandola come il primo segmento istituzionale del nuovo Stato.
Nella «banda», infatti, la scelta sovrana dei singoli partigiani, attraverso la partecipazione e l’autogoverno, si misurò con compiti e obiettivi che andavano oltre gli aspetti militari di quella loro esperienza; si trattava di gestire – insieme alle armi e al potere che ne derivava – trasporti e viveri, confrontarsi con i bisogni della popolazione, amministrare le strutture burocratiche dei comuni, istituire tribunali, prendere decisioni che coinvolgevano territori più o meno vasti (dalle singole comunità alle vaste aree liberate delle Repubbliche partigiane nate nell’estate 1944).
Senza i partiti e il loro ruolo subito decisivo anche nell’Italia del Sud, le bande e il Clnai che le rappresentava non sarebbero però riusciti a incidere sulla politica nazionale. Questo passaggio dalla banda ai partiti, dal locale al nazionale, non fu indolore né facile. Appena finita la guerra, le istanze di sovranità armata che le varie formazioni partigiane avevano incarnato furono inglobate in strategie politiche più complesse e articolate; quando, dopo la vittoriosa insurrezione del 25 aprile 1945, con la consegna delle armi da parte degli insorti, i partiti «delle tessere» soppiantarono quelli «dei fucili», vincoli e compatibilità istituzionali divennero prioritari e, proprio attraverso i partiti, lo Stato appena ricostruito si riappropriò della sua piena sovranità.
Nei lavori della Costituente le elaborazioni programmatiche dei partiti ebbero un peso preponderante; pure, qualcosa della «sovranità» degli individui che avevano impugnato le armi riuscì a filtrare.
La fedeltà al «popolo dei morti» partigiani invocata da Piero Calamandrei fu, ad esempio, uno degli elementi che rafforzarono l’ispirazione unitaria che riuscì allora ad avere la meglio sui dissidi ideologici già affiorati nei rapporti tra i vari partiti.
Non solo. Filippetta indica almeno due articoli che derivano direttamente dalla sovranità individuale vissuta nell’esperienza partigiana: l’articolo 49 (quello che indica come soggetti del concorso alla determinazione della politica nazionale non i partiti, ma i cittadini che possono usare come propri strumenti i partiti, ma che hanno anche altre forme per esprimere la loro volontà) e l’articolo 75 sul referendum abrogativo.
Frammenti, è vero. Pure, oggi, con i partiti costituenti scomparsi nel nulla, forse è proprio da quei frammenti che si può ripartire per rifondare – come auspica Filippetta – un patto di cittadinanza che trovi una sua nuova legittimazione direttamente nelle coscienze dei singoli individui.
Giovanni De Luna La Stampa 20.11.18
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