Nell’Europa del Medioevo non esistevano leggi anti-riciclaggio, ma l’Inferno funzionava molto meglio di adesso e il girone degli usurai era affollato di buoni finanzieri cristiani come Ettore Gotti Tedeschi. Fenus pecuniae, funus est animae, “il profitto del denaro è la morte dell’anima”, aveva ammonito a suo tempo papa Leone Magno. Chi presta soldi in cambio di interessi, si legge in un manoscritto anonimo del Duecento, commette un peccato gravissimo contro la natura, “pretendendo di generare denaro dal denaro, come un cavallo da un cavallo o un mulo da un mulo”. E nel suo manuale per confessori il vescovo inglese Tommaso di Cobham rincara la dose: “L’usuraio punta a guadagnare senza lavorare, addirittura dormendo; ciò va contro il precetto del Signore che ha detto: ‘Con il sudore del tuo volto mangerai il pane’”.SE LA CHIESA medievale divide la società in tre classi, uomini di preghiera, guerrieri e lavoratori, il predicatore francese Giacomo di Vitry ne aggiunge una quarta: i professionisti dell’usura. “Essi non partecipano al lavoro degli altri uomini e perciò non subiranno il castigo degli uomini, ma quello dei diavoli. La quantità di denaro che hanno guadagnato con l’usura corrisponde alla quantità di legna inviata agli Inferi per bruciarli”. Chissà quanta legna sarebbe necessaria per un Madoff o un Tanzi. Certo, le fiamme eterne per gli strozzini erano di ben scarsa consolazione per le loro vittime, che non potendo contare sulla giustizia degli uomini dovevano affidarsi a quella del Padreterno. Talvolta, però, la punizione arrivava in anticipo: si racconta di ricchi prestasoldi privati dell’uso della parola in punto di morte, in modo da non potersi confessare (ma forse si avvalevano della facoltà di non rispondere al sacerdote), o colpiti da infarto senza avere il tempo di pentirsi. E un domenicano di Lione narra un episodio spettacolare: “Nell’anno del signore 1240, a Digione, un usuraio volle celebrare le sue nozze con grande sfarzo… Mentre i due promessi sposi felici stavano per entrare in chiesa accadde che una statua di pietra raffigurante un usuraio trascinato all’Inferno dal Diavolo si staccò e cadde con tanto di borsa sulla testa dell’usuraio in carne e ossa, uccidendolo”. Tornando al succitato Gotti Tedeschi, attuale capo dello Ior, paragonarlo agli usurai del XIII secolo sarebbe ridicolo prima che ingiusto.
Ma la storia millenaria della Chiesa e del suo rapporto tormentato e ambivalente col mondo dell’economia ci aiuta a capire tante cose anche sulla realtà dei nostri tempi. Lo stesso giorno in cui il Tribunale del riesame di Roma confermava il sequestro di 23 milioni di euro a carico della banca vaticana per certe movimentazioni sospette, il presidente interveniva a un convegno su etica e finanza promosso dall’Osservatore Romano e puntualmente ripreso dal laico Sole 24 Ore. E parafrasando il famoso passo del Vangelo di Marco sul cammello e la cruna dell’ago, si lanciava in un’ardita ipotesi teologica: “Il ricco, per entrare nel regno dei cieli deve diventare ancora più ricco, perché se la ricchezza non viene creata il rischio è poi di distribuire la povertà”. Anche se la ricchezza è frutto di speculazione, o peggio di frodi ai danni dei risparmiatori? Anche quando la gobba del cammello è gonfia di titoli tossici o di conti correnti intestati a prestanome? COME RICORDA il grande medievista Jacques Le Goff nel suo Lo sterco del diavolo. Il denaro nel Medioevo (Laterza, pagg. 220, euro 18,00), l’unico modo di evitare l’Inferno, per un usuraio, era la restituzione del maltolto. Cosa che non avveniva di frequente, malgrado i fulmini del clero: come diceva re Luigi IX il santo, “è una pessima cosa appropriarsi dei beni altrui perché restituirli è così arduo che la sola pronuncia della parola rende strozza la gola a causa delle r che contiene, le quali rappresentano i rastrelli del demonio che sempre trascinano indietro coloro che hanno deciso di restituire i beni altrui”. Poi con lo sviluppo dei commerci, l’aumento della circolazione monetaria e la crescita dell’indebitamento anche il mondo ultraterreno ebbe bisogno di ampliamenti, sicché fu istituito il Purgatorio, dove pure speculatori e strozzini avevano una chance di redenzione. Un regime di carcere meno duro, con possibilità di riduzione della pena per buona condotta. I più abili e meritevoli riescono a strappare un Lodo ad personam e vanno dritti in Paradiso senza fare anticamera. Basta qualche opera di bene o un oratorio dedicato alla Vergine. Tipico il caso degli Scrovegni, ricchi mercanti padovani del XIII secolo. Dante schiaffa il padre, Rainaldo, nel girone degli usurai, ma il figlio Enrico, che consolida il business di famiglia, espia la propria opulenza con un gesto esemplare di caritas: investe un mucchio di quattrini in una cappella affrescata da Giotto, raccomandando che il ciclo dei vizi e delle virtù non appaia punitivo verso la sua categoria. Come biasimarlo? Dopotutto, gli Scrovegni del Duemila non lasciano all’umanità chiese affrescate, ma ville ad Antigua e si comprano la benevolenza del clero vietando le unioni gay. Peraltro è difficile mandare all’inferno i mercanti se ci si mostra più avidi di loro.
Oltre a dover venire a patti con le leggi dell’economia, fin dal Medioevo la Chiesa diventa essa stessa una potenza economica che ha sempre più fame di “pecunia”. È ancora Le Goff a ricordarci che fu il trasferimento ad Avignone, agli inizi del Trecento, a far impennare le spese della Santa Sede. Sale il numero dei dignitari della corte (tra 400 e 500, un centinaio in più rispetto all’ultimo papa romano, Bonifacio VIII) e Clemente V arriva a spendere ben 120 mila fiorini all’anno, di cui 30 mila solo “per la gestione domestica del suo palazzo tra stipendi, cibo, cera, legna, bucato, fieno, mantenimento dei cavalli ed elemosine”. E le entrate? A parte le somme che vescovi e abati devono pagare al momento della nomina, il grosso proviene dai “censi” corrisposti dal re di Napoli e da altri signori italiani e dall’obolo di San Pietro versato dai regni scandinavi. “Tutte queste imposte – osserva lo storico – vengono saldate di malavoglia dai debitori nonostante il frequente ricorso alla scomunica”. Per forza: sai che gusto foraggiare dei papi che pensano solo a costruire palazzi sontuosi e ad armare eserciti per difendere le loro terre. Il fisco pontificio è una sanguisuga che ricorre a ogni mezzo per rimpinguarsi, inclusa la Peste nera che si abbatte sull’Europa dal 1348: “I benefici di molti titolari morti durante l’epidemia – ricorda Le Goff – vanno ad alimentare direttamente le finanze della Chiesa”. E quando non sanno a cosa appigliarsi, tirano in ballo la lotta alle eresie, spauracchio sempre buono per giustificare confische, procure e gabelle. E poi ci lamentiamo dell’otto per mille e dell’esenzione dall’Ici… OGGI BENEDETTO XVI tuona giustamente contro il potere distruttore dei “capitali anonimi che pongono l’uomo in schiavitù” e predica l’avvento di un “mercato buono”, una specie di non profit universale che ricongiunga le sfere della giustizia e della carità. Ma il suo messaggio perde credibilità se la finanza vaticana, lo Ior o la Propaganda Fide si comportano con la stessa cupidigia e scarsa trasparenza dei capitalisti senza Dio. Come scrive Monsignor Giuseppe Casale, arcivescovo emerito di Foggia-Bovino, in un suo coraggioso libello (Per riformare la Chiesa, edizioni La Meridiana, pagg. 76, euro 12,00), “la povertà è per la Chiesa un discorso teologico prima che sociologico”. Dopo la fine dell’alleanza trono-altare la Chiesa cattolica non ha ritrovato la strada del Vangelo e oggi, “nella opulenta società dell’Occidente aiuta i poveri, ma resta quasi impermeabile alla scelta della povertà per se stessa. Il culto a Dio giustifica il barocchismo di vesti liturgiche e di insegne episcopali. La necessità di sostenere opere pastorali spinge a servirsi dei meccanismi della finanza moderna”. A rischio di incappare nelle maglie della giustizia come i tanti peccatori in doppiopetto che maneggiano troppo disinvoltamente lo “sterco del diavolo”.
Riccardo Chiaberge il Fatto Quotidiano 30 ottobre 2010
vedi: LO STERCO DEL DIAVOLO. IL DENARO NEL MEDIOEVO