ECCO PERCHÉ GLI INTELLETTUALI FANNO PAURA, È dall’antica Grecia che gli intellettuali vengono ciclicamente considerati inutili. Ancora di più ora, in un’epoca in cui l’azione precede la riflessione. Ma è proprio la volontà di ridurli al silenzio che, in controluce, dimostra la loro rilevanza. II portatore di sapere è giudicato sentenzioso, fastidioso, anti-popolare, elitario, incapace di agire. Mentre si esalta il mito del fare fine a se stesso.

Questo testo che segue è tratto dal libro: Mai più senza maestri di Gustavo Zagrebelsky,  Il Mulino  2019 , euro 14

 

Agli “intellettuali” si chiede di pentirsi. I “maestri” che pretendono addirittura di insegnare sarebbero gli intellettuali più colpevoli di tutti gli altri. Il dileggio non è di oggi. Nel dialogo che ha per oggetto la conoscenza, il Teeteto, Socrate riferisce «ciò che si racconta di Talete»: «Mentre studiava le stelle e guardava in alto, cadde in un pozzo; onde una servetta di Tracia, arguta e graziosa, lo motteggiò, a quanto si narra, perché si desse gran cura di conoscere le cose celesti, ma di quelle che gli stavan sotto gli occhi e dinanzi ai piedi non s’avvedesse per nulla».

Questa semplice piccola storia, commentata in molti modi, seriosi e seri è entrata a far parte della nostra cultura e anche del nostro senso comune. Aristofane andava incontro alle risate facili del pubblico quando metteva il filosofo per eccellenza, Socrate, nel suo pensatoio sospeso in una cesta tra cielo e terra: «Non sapevi che le nuvole sono dee e non le onoravi. Tu non sai che esse nutrono fior di sapienti: indovini, dottoroni, cappelloni scioperati con i loro anelli e le unghie ben curate, straziacanti di cori ciclici, ciurmadori di fenomeni celesti. Esse nutrono questi scioperati fannulloni. In cambio di questa roba trangugiano fette di grossi muggini squisiti e volatili carni di tordi».

C’è del vero. Perfino uno dei più intellettualistici tra i filosofi classici, Platone, avvertì l’esistenza di un limite etico in chi sa solo produrre parole. Spiegando la ragione dei suoi viaggi a Siracusa presso il tiranno Dionisio, sorprendentemente ammette: «Salpai da Atene, non per la ragione che alcuni credevano, ma perché mi vergognavo assai di poter apparire di fronte a me stesso come un uomo capace solo di parole e che mai mette mano di sua volontà ad alcuna opera».

In seguito, il tema è diventato centrale nella riflessione filosofica, nei termini del rapporto tra teoria e prassi, pensiero e azione, universale e particolare, e ha investito la legittimità del puro pensiero, del pensiero che pensa se stesso, si arrovella su di se e pretende validità indipendentemente dal suo rapporto con “la vita”.

Che cosa viene “prima”: l’azione o il pensiero? Il pensiero è la guida efficace dell’azione giusta? Secondo una tradizione che si può far risalire a Socrate, l’azione giusta presuppone la conoscenza della giustizia e l’azione ingiusta dipende dall’ignoranza.

Ma un’altra tradizione, testimoniata forse in Esodo (24,7), mette in primo piano l’azione: sorprendentemente si dice che gli Ebrei, ricevendo la legge da Mosè, dicono, prima: «noi faremo» e, poi: «ascolteremo». Qui la conoscenza per mezzo dell’ascolto della “parola” si svolge ex post, come comprensione dell’esperienza che si è fatta attraverso l’azione.

Forse si vuol dire che non c’è vera conoscenza se non si fa esperienza e che, anzi, l’esperienza deve precedere la conoscenza. Forse (forse, forse, forse…) questo è anche il significato della riflessione sull’inizio del Vangelo di Giovanni, che Goethe attribuisce a Faust, in presenza del demonio che sta nel cagnolino (Faust, 1224-1237): «Sta scritto: “In principio era la parola!” / Qui già m’impunto. Chi mi aiuta a proseguire? / No, porre così in alto la parola / non posso. Devo tradurre in altro modo, / se mi dà lo spirito la giusta ispirazione. / Sta scritto: In principio era il pensiero. / Medita bene la prima riga, la tua penna non abbia troppa fretta! / E il pensiero che foggia e crea ogni cosa? / Dovrebbe essere: In principio era la forza! / Eppure mentre lo sto scrivendo, / già qualcosa mi avverte che non me ne accontento. / Lo spirito mi aiuta! Di colpo vedo chiaro / E scrivo fiducioso: In principio era l’atto».

Non mancano i tentativi di connettere teoria e prassi, pensiero e azione, in una dimensione esistenziale in cui il dover essere, cui guarda il puro pensiero, si nutre dell’essere, dove si svolge la vita, e viceversa. È il pragmatismo: imparare dai propri errori, ma anche dai propri successi.

Esistono epoche in cui la priorità si è data al pensiero e l’azione si è considerata figlia del pensiero, le “epoche intellettualistiche”. Oggi, siamo in una “epoca attivistica” e anti-intellettualistica. Le cose si fanno perché “sono possibili” fattualmente e non perché siano giuste e ragionevoli; ciò che è tecnicamente possibile diventa eticamente lecito. Il “fatto compiuto” non ammette replica e al pensiero si riconosce, al massimo, il compito di razionalizzare e normalizzare.

L’equilibrio si è spostato decisamente da questa parte dove, nel negare l’autonomia dell’intelletto, l’irrazionalismo s’incontra con la forza schiacciante dell’odierna elaborazione dei “dati”.

All’autonoma ragione progettante e dirigente, al cosiddetto “costruttivismo” che per secoli ha prodotto ideologie e programmi, non si crede più. Anzi, il pensiero, se ancora ne residua qualcosa, si concentra nel dimostrare la propria impotenza sulle azioni e, quindi, la sua inutilità, a meno che non si metta al servizio della verità-realtà che esercita la sua dittatura.

Vincono i “tecnici” (i «meccanici», come li chiamò Alessandro Manzoni) e gli “intellettuali” sono le vittime. Li si guarda con diffidenza e, talora, con disprezzo. Sono freddi, sentenziosi e ciarlieri, fastidiosi e presuntuosi, moralisti e arroganti, elitari e anti-popolari, timorosi delle novità e per lo più conservatori e, al dunque, inutili, superflui e forse nocivi

Poiché si dedicano ai loro studi e vi si perdono, non sanno che cosa sia la fraternità con gli umili. In più, è facile identificarli con i vecchi diffidenti che sono d’ostacolo alla gioventù impetuosa che, invece, insegue il rischio e afferra “la fortuna”. Così è il consiglio che Machiavelli dà agli uomini intraprendenti (Il Principe, cap. XXVI): «Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo, perché la fortuna è donna; ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano. E però sempre, come donna, è amica dei giovani, perché sono meno respettivi, più feroci, e con più audacia la comandano».

Queste sono generalizzazioni che, tuttavia, hanno un nocciolo di verità. “Gli intellettuali”, soprattutto quelli che con l’avanzare dell’età diventano progressivamente sospettosi e pessimisti, prudenti all’eccesso e conservatori, devono tenerne conto.

Tuttavia, a conferma della perdurante rilevanza della funzione intellettuale nelle nostre società, a dissolvere le incertezze e a convalidare le coscienze, stanno le persecuzioni di cui il libero pensiero è vittima: persecuzioni fisiche e morali, fino a quella più insidiosa che consiste nella riduzione al silenzio semplicemente attraverso la cortina d’invisibilità con la quale lo si avvolge costringendolo alla clandestinità.

Queste sono le prove meno contestabili della rilevanza degli intelletti nelle vicende della vita. Le idee ch’essi alimentano possono diventare anch’esse “fatti compiuti”.

Le persecuzioni suscitano riconoscenza: riconoscenza nei confronti non solo delle vittime, ma anche, paradossalmente, addirittura nei confronti dei persecutori. Essi sono testimoni a favore. Nel campo dello spirito, la persecuzione si ritorce contro i persecutori.

Gustavo Zagrebelsky        La Repubblica  10/5/2019

 

«Mai più maestri!» si leggeva nel ’68 sui muri di Parigi; un motto antiautoritario ed egualitario che riassumeva il sogno di una società più libera. E oggi, esistono ancora i maestri? Nella nostra democrazia, che appiattisce l’alto sul basso, sembra esserci posto solo per influencer, comunicatori e tutor che rassicurano e consolano, e non per guide dello spirito capaci di risvegliare le coscienze.

Ma senza maestri si è condannati al pensiero unico e all’omologazione. Senza di loro chi susciterà l’inquietudine del dubbio, chi ci indicherà «l’altrimenti», chi smuoverà energie vitali e liberatorie verso il nuovo? Figure anacronistiche allora, ma necessarie ovunque rinascano una domanda di senso e una esigenza di ethos.  (IBS)

 

Vedi:  La democrazia ha ancora bisogno di Maestri

Se il governo ha paura della cultura

La rivoluzione che serve davvero: non senza competenze

 


Calendario eventi
maggio 2019
L M M G V S D
 12345
6789101112
13141516171819
20212223242526
2728293031EC
Cerca nel Sito
Newsletter
In carica...In carica...


Feed Articoli